24 Maggio 2017 | Sfatamito
MARIMO: a cosa vi fa pensare questa parola?
Si tratta di un’alga verde pluricellulare scoperta nel 1820 dal botanico giapponese Kawakami, ma conosciuta anche come alga a palla. La scelta del nome attribuitale dal signor Kawakami non è casuale: “MARI” significa biglia e “MO” è un termine generico per indicare le piante che crescono in acqua. Una combinazione semplice ma perfetta, che nella nostra lingua richiama casualmente il mare. Studi scientifici hanno dimostrato che queste alghe assorbono una gran quantità di nitriti, nitrati e componenti ammonici nell’acqua, rilasciando una grande quantità di ossigeno sotto forma di bollicine visibili sugli steli.
Il Marimo è stato fin da subito considerato un simbolo non solo di amore, ma anche di affetto profondo, sentimento sincero, stima e rispetto. Sulle rive del lago Akan si trova un museo dedicato a questo tipo di alghe e alla loro lunga tradizione e mitologia. Quest’ultima narra la storia di una coppia di innamorati che si rifugiarono sulle rive del lago Akan, unico luogo dove nascano i Marimo, per sfuggire alle proprie famiglie che li volevano separati.
I loro due cuori si trasformarono in Marimo per vivere in eterno il loro amore: i Marimo infatti vivono oltre 200 anni e crescono di 5 millimetri ogni anno!
Una particolarità dei Marimo è la loro danza: con la luce del giorno potranno crearsi numerose sfere di ossigeno, visibili ad occhio nudo durante la fotosintesi clorofilliana, che faranno fluttuare l’alga all’interno del suo contenitore. Questo movimento è chiamato “la danza del Marimo”.
L’alto numero di persone che cercarono nel passato di appropiarsi di queste piante ha costretto il Giappone a prendere provvedimenti per evitarne l’estinzione. Nel 1921 il Marimo è stato dichiarato Tesoro Naturale Giapponese.
1 Febbraio 2017 | Senza categoria
Alcuni dermatologi si sono riuniti a Perugia per il simposio “Acne e cioccolato” dell’Adoi (Associazione dermatologi ospedalieri italiani), per sfatare il mito che collega i brufoli al consumo del cioccolato. Questa credenza, infatti, è sfruttata dai genitori ma non è fondata su alcun fatto documentato. Per stabilire quale relazione realmente ci sia fra la salute della pelle e il cacao è stato eseguito, su cinquanta adolescenti, il primo studio multicentrico italiano, a cui sono stati fatti consumare 60 grammi di cioccolato al giorno. Dopo due settimane nessuno ha presentato la proliferazione di brufoli e i dermatologi hanno quindi chiarito che solo in dosi massicce, il dolce potrebbe contribuire ad alterare l’equilibrio dei microorganismi a livello intestinale e cutaneo. Sottolineano inoltre che i cibi che peggiorano l’acne sono quelli che aumentano il metabolismo glucidico e degli aminoacidi. Quindi zuccheri, lipidi e, in parte minore, gli aminoacidi della carne rossa. È soprattutto la presenza di estrogeni nella carne e nel latte a contribuire allo sviluppo dell’acne. Grazie ai dermatologi la cattiva credenza è sfatata. Come del resto è noto da sempre ad ogni Maestro cioccolatiere!
30 Novembre 2016 | Sfatamito
È un mito ormai conosciuto il fatto che il teorema in grado di aiutarci a conoscere i triangoli sia stato scoperto da Pitagora.
In realtà si tratta di un’informazione falsa: questo teorema porta solo in nome del filosofo, ma non è realmente stato scoperto da lui stesso.
Si racconta, ma è leggenda, che Pitagora abbia scoperto il suo teorema mentre stava aspettando di essere ricevuto da Policrate. Seduto in un grande salone del palazzo del tiranno di Samo, Pitagora si mise ad osservare le piastrelle quadrate del pavimento. Se avesse tagliato in due una piastrella lungo una diagonale, avrebbe ottenuto due triangoli rettangoli uguali. Inoltre l’area del quadrato costruito sulla diagonale di uno dei due triangoli rettangoli risultava il doppio dell’area di una piastrella.
In realtà la storia del teorema è molto più complessa e le sue origini risalgono almeno ad un migliaio di anni prima che Pitagora si dedicasse allo studio dei triangoli rettangoli.
Il teorema di Pitagora era noto un tempo come “il ponte degli asini”, il ponte che riusciva a superare soltanto chi dimostrava di possedere sufficienti attitudini per il pensiero astratto e per un metodo deduttivo da applicare a procedimenti matematici quali erano quelli proposti dai pitagorici.
In Cina il teorema “di Pitagora” era già noto almeno mille anni prima della nascita di Pitagora. E’ collegata a una figura, che si trova nel Chou Pei Suan Ching uno dei più antichi testi cinesi di matematica, Il libro classico dello gnomone e delle orbite circolari del cielo, scritto al tempo della dinastia Shang, 1500 – 1000 a. C..
La dimostrazione del teorema di Pitagora era precedentemente chiamata dai cinesi kou ku.
Sempre in Cina Liu Hui, un grande matematico del terzo secolo d. C., diede una dimostrazione del teorema “di Pitagora” che è stata ricostruita da alcuni matematici moderni seguendo le indicazioni che è stato possibile ricuperare.
Anche dall’India arriva un enunciato del teorema di Pitagora che ci autorizza a pensare come il teorema fosse già noto agli indiani in epoche precedenti alla nascita di Pitagora. Si legge infatti nei Sulbasutra, i testi che contenevano le istruzioni per la costruzione degli altari, riportati in forma scritta fra l’800 e il 600 a. C.:
Dall’Arabia arriva invece la dimostrazione di Thabit ibn Qurra Marwan al’Harrani (826 – 901).
Possiamo quindi affermare che il nostro Pitagora ha solamente rivisto in modo personale ciò che esisteva ormai da tempo!
13 Ottobre 2016 | Sfatamito
“Sai, noi utilizziamo sempre solo il 10 per cento del nostro cervello. Provate a immaginare cosa si potrebbe realizzare se si utilizzasse l’altro 90 per cento!” Quante volte avete sentito questa affermazione?
In realtà non si tratta che di una credenza: noi utilizziamo tutto il nostro cervello. Se il peso medio del cervello è di 1,400 grammi e noi rimuovessimo il 90% di esso, non resterebbero che 140 grammi di tessuto celebrale, praticamente la taglia del cervello di una pecora. È risaputo che il danneggiamento di una piccola porzione di cervello può causare disabilità devastanti, quindi il non usare porzioni di cervello è dovuto esclusivamente a malattie celebrali.
Da dove deriva il mito
I ricercatori suggeriscono che questa popolare leggenda metropolitana esista almeno dal 1900. Potrebbe essere stata generata da un malinteso o da un’errata interpretazione della ricerca neurologica. Il mito del 10 per cento potrebbe essere emerso dagli scritti dello psicologo e filosofo William James. Nel suo libro del 1908, The Energies of Men, ha scritto: “stiamo facendo uso di solo una piccola parte delle nostre possibili risorse mentali e fisiche.”
Secondo altri, fu Einstein ad attribuire le sue capacità intellettuali al fatto di usare più del dieci per cento normalmente sfruttato, ma questa attribuzione pare sia falsa. Altra possibile origine sono le ricerche sul cervello svolte negli anni ’30 da neurochirurghi, in cui si parlava di corteccia silente per le aree del cervello cui apparentemente, alla stimolazione elettrica, non corrispondeva una funzione.
Come è stato sfatato il mito
Scansioni di imaging del cervello mostrano chiaramente che quasi tutte le regioni del cervello sono attive anche durante compiti abbastanza di routine, come parlare, camminare, e ascoltare musica.
Se il mito fosse vero, sulle persone che soffrono di danni cerebrali dovuti ad un incidente o un ictus non si sarebbero probabilmente notati gli effetti reali del danno. In realtà, non c’è una singola area del cervello che può essere danneggiata senza provocare una conseguenza più o meno grave.
Non avremmo sviluppato un cervello così grande se avessimo utilizzato una così piccola porzione di esso.
Il cervello utilizza circa il 20 per cento dell’energia del corpo. Avrebbe poco senso evolutivo che una parte così grande delle nostre risorse energetiche fosse utilizzata da una quantità del cervello a tal punto piccola.
La ricerca e la mappatura del cervello devono ancora trovare una regione del cervello che non serva neanche ad una funzione. “Numerosi tipi di studi di brain imaging mostrano che nessuna area del cervello è completamente silenziosa o inattiva”, hanno scritto il dottor Rachel C. Vreeman e il Dr. Aaron E. Carroll in uno studio dei miti medici.
Dopo decenni di studi gli scienziati sono arrivati alla conclusione che il cervello non può crescere ma solamente sviluppare le proprie capacità e superare alcuni suoi limiti. Ma, per la complessità dell’organo in questione, è presumibile che la scienza abbia ancora molto da scoprire.