ABBI DUBBI

Della compagnia di circo “Treggì” della scuola “Fuma che n’duma”

 

Abbi dubbi! Spesso associamo l’essere indecisi, il non saper compiere una scelta, ad una debolezza. 

Abbi dubbi è il titolo di uno spettacolo di circo, che poi, di solo circo proprio non è, ma è anche un invito per chiunque stia leggendo queste parole, me compresa. 

Chi non è determinato, chi non è sicuro di ogni sua decisione, chi, dopo una domanda, resta lì, titubante, a pensare ad una possibile risposta, è qualcuno che probabilmente giudicheremmo come insicuro. 

Ma spesso e volentieri, siamo noi stessi che non ci diamo la possibilità di avere dubbi. Ci lasciamo trasportare dall’idea del “si è sempre fatto così”, senza mettere in dubbio il modo in cui trascorriamo la nostra esistenza. Perché, se vissuta così, forse è proprio un trascorrere la vita, non un viverla. Nella quotidianità andiamo avanti col pilota automatico. Siamo convinti di essere sempre noi ad avere ragione, sicuri in ogni nostra scelta, e non mettiamo più in dubbio nulla. O forse, semplicemente, è molto più comodo non mettere in dubbio nulla, e continuare come si è sempre fatto. 

Ma è anche la società in cui viviamo ad assumere questo atteggiamento. E questo è un messaggio chiarissimo che ci urlano i protagonisti di questo spettacolo. Siamo abituati ad assumere per vero tutto quello che ci è stato insegnato, tutto quello che la tradizione, ogni giorno, ci tramanda. 

Sei una sposa… devi trovare l’abito perfetto. Sei una segretaria… è meglio che tu abbia i tacchi. 

Sei un imprenditore… devi mettere giacca e cravatta”.

Queste alcune delle parole di uno dei momenti in cui gli artisti fanno sentire la loro voce, che ci portano a pensare: ma noi, davvero, cosa vogliamo? Io, sotto tutto, nonostante tutto quello che mi dice la società, mia mamma, il mio fidanzato, la mia comunità, i miei professori: io, cosa voglio? Che scelta faccio? 

Tutto parte in chiave ironica, fil rouge di molti spettacoli della compagnia, l’ironia, e in ciò che porta in scena: il “dubbio amletico”: a maggio, la sera a cena con gli amici, prendo la giacca o no? Il dubbio, che può apparire superficiale, dà la possibilità di introdurci in quello che i ragazzi hanno elaborato nei mesi di preparazione dello spettacolo, e in ciò che vogliono esprimere. Ogni scelta, piccola o grande che sia, fa parte di noi, fa parte della nostra storia. È una grande responsabilità! Ci identifica, fa capire chi siamo, e ci rende unici. Nessuno ha fatto tutte le scelte che abbiamo fatto noi, fino a questo momento della nostra vita.

Lo spettacolo non è un susseguirsi di numeri ed esibizioni, come un comune spettacolo di circo. È molto di più. È la storia di adolescenti, dai quattordici ai diciannove anni, che si sono messi in dubbio. Che si sono chiesti, ciascuno, quale fossero le scelte più difficili. Quali sono, ogni giorno, le difficoltà da affrontare. Senza giudizio, senza definirle piccole o grandi, perché è troppo soggettivo e dipende da persona a persona. 

È la storia, urlata, cantata, danzata, narrata. È la storia raccontata in alto, sul trapezio (in cinque), o in aria, sui tessuti. È la storia di quando sei da solo e nessuno ti ascolta. È la storia di chi non ha paura di lasciarsi cadere nel vuoto, magari perché non ha altra possibilità. È la storia di chi ha bisogno degli altri per vivere. Di chi, in fondo, solo non è mai. È una storia di fiducia, di chi regge qualcuno sulle proprie spalle (letteralmente e non), perché riesca a stare in piedi. È la storia di chi è costretto per tutta la vita a sottostare alle scelte degli altri, fino ad un certo punto in cui no. In cui si chiede cosa vuole davvero, in cui ha dubbi. In cui si ribella, in cui scopre sé stess* e allora, improvvisamente, tutto inizia ad essere colorato, tutto inizia ad avere senso. 

È una storia scritta, pensata, interpretata e raccontata interamente da venti ragazze e ragazzi, diversi tra loro ma che si muovono assieme. Che ci dicono in faccia che si, è necessario avere dubbi, sempre. Che chi non ha dubbi non vive davvero. Chi non si mette in discussione. Chi non fallisce mai, chi sembra sempre far tutto giusto, ha già perso in partenza. 

Non è una debolezza mettersi in discussione, è la più grande forma di crescita personale che ognuno può provare. È la dimostrazione del nostro essere vivi, umani e, come tali, fallibili. 

 I corpi sono immobili, alle volte. Più spesso, in posizioni scomode, con i muscoli tesi per lo sforzo di lanciarsi in aria, o di sostenersi con la sola forza delle braccia. Sono corpi scattanti, vivi, liberi, forti e deboli insieme, potenti e dolci, corpi giovani e pieni di energia, instancabili. Sono corpi in cui si legge tutto quello che siamo noi, e cioè un mucchio di incertezze. Perché solo così possiamo scoprire chi siamo davvero, solo essendo elastici mentalmente. Senza alcuna rigidità, senza alcuna cosa data per certa, per scontata. Ponendoci in una condizione di dubbio continuo. 

Abbi dubbi, allora, è l’augurio che faccio ad ognuno di noi. E se ancora avete dei dubbi (il che è positivo, a questo punto!), lascio che siano le parole che arrivano direttamente dalla canzone scritta per lo spettacolo, e che gli dà anche il titolo: 

Abbi Dubbi di Angelica

abbi dubbi quando il sole scompare

abbi dubbi quando sai già di esitare

abbi dubbi quando vedi un cambiamento da affrontare 

abbi dubbi quando pensi di lasciare stare

abbi dubbi se il tempo non ti aspetta

abbi dubbi quando esprimi una certezza

abbi dubbi quando pensi di essere imperfetta

abbi dubbi quando senti una promessa eterna

 

scelte come note in un tempo senza fine

questo cammino incerto mi rende un po’ più vile

 

scegliamo il destino a passi leggeri 

le piccole scelte, i nostri pensieri

ma dietro le semplici cose

si creano le nostre storie

 

abbi dubbi quando non sai come amare

abbi dubbi quando non ti puoi fidare

abbi dubbi quando pensi di essere banale

abbi dubbi quando premi troppo quel pedale

abbi dubbi quando doni una carezza

abbi dubbi quando corri troppo in fretta

abbi dubbi quando scegli tra sinistra e destra 

abbi dubbi quando avanzi verso la tempesta

 

scelte come note in un tempo senza fine

questo cammino incerto mi rende un po’ sottile 

 

scegliamo il destino a passi leggeri 

le piccole scelte, i nostri pensieri

ma dietro le semplici cose

si creano le nostre storie

 

tra il chiarore dell’alba e il buio della sera

la melodia della scelta sempre contesa

dubbi si dissolvono come una candela 

ad ogni passo incerto sto una vita intera

 

Prossima replica: martedì 9 luglio, alle ore 21,30 al Tendone di Savigliano (Via Snos 9, Savigliano)

Per info: 

 https://fumachenduma.it

Instagram: @fumachenduma

Instagram della compagnia: @treggì

 

UN GELATO DA SOLA – Una battaglia vinta

Il seguente testo è molto personale, e il tema è quello dei disturbi alimentari. Spero che non provochi malumori, malesseri, e che possa arrivare alle persone nel modo semplice e naturale come è scaturito da me, quando l’ho scritto. 

 

Oggi ho preso un gelato.

Una banalità. Un fatto non degno di nota.

Non è che ho fatto qualcosa di assurdo.  Avessi detto “Oggi ho prenotato un aereo di sola andata per l’Australia”, sarebbe stato qualcosa di scioccante, più d’impatto. Invece per me è notevole anche questo, perché per lungo tempo mi sono preclusa un sacco di piaceri legati al cibo. Tranne quando non li ritenevo strettamente necessari. Come il gelato. Lo prendevo solo quando ero con altri, e quando anche gli altri lo prendevano; quando ero in giro, quando avevo fatto un qualche tipo di movimento per cui ritenevo di “meritarmi” la gioia del gelato. Oppure ad una festa, dove giustificavo il mio “trasgredire” al regime alimentare che mi ero creata col fatto che tutti lo prendevano, e che non potevo essere l’unica stupida che non lo mangiava. Quante cose ti fa perdere un disturbo alimentare? Quante cazzate ti ficca nella testa? Di quante cose ti priva? Quanti pensieri assurdi, assurdi, assurdi. Quanta privazione di gioia vera, la gioia del gelato per esempio: il sentire il fresco e il cremoso sulla lingua, dopo una giornata calda, dopo ore di lezione, sostituita invece da una “gioia bugiarda”. Una gioia che deriva dall’aver rispettato i rigidi limiti di quantità, di tipo di cibo, che la tua mente ti ha impostato. Come è possibile che si arrivi a preferire questa ultima alla prima, non ne ho idea. Però è una cosa terribile, terribile e assurda. E riconoscere quanto fosse assurda, una volta che ci si è liberati da questi pensieri assurdi, è la felicità più grande. 

Ecco perché mi sentivo di celebrare questo piccolo fatto, apparentemente del tutto degno di ignoranza. Un piccolo successo, che si somma a quei tanto piccoli quanto grandi passi verso la felicità. 

Che per me è prendere un gelato senza pensare. Prendere un gelato a Torino, in una nuova gelateria che ha aperto da poco vicino a Palazzo Nuovo, mentre mi avvio alla stazione per prendere il treno e tornare a Cuneo. Sono in anticipo, quindi ce la faccio. Entro, ci sono due bambini che stanno ordinando due coni belli grandi. Il bimbo ha già fatto la su richiesta, la bimba sta aspettando la gelataia, che infila un biscotto tra le due palline nel cono appena riempito. Inizio a guardare i gusti, per scegliere quale ordinare, e noto con piacere che il prezzo è contenuto, rispetto alla media delle gelaterie torinesi. La bimba ordina due gusti, poi, d’un tratto, esclama di punto in bianco: “No! Non nocciola, volevo il torroncino!”. Siccome ha praticamente urlato, io e la gelataia, una ragazza giovane e allegra, ci siamo spaventate, e ci mettiamo a ridere. Per fortuna il la ragazza aveva appena afferrato il cono, che era ancora da riempire. La bimba prende il gelato con un sorriso sulle labbra, e esce con quello che credo sia il fratellino più piccolo. Tocca a me! Gelato allo yogurt, piccolo, grazie. Cono croccante o wafer? Quello più croccante, per forza! Pago ed esco, felicissima come la bimba uscita pochi istanti fa. 

Tutto questo è così semplice e così naturale, che mi viene da pensare a quanto sono cresciuta e cambiata rispetto ad una volta. Una volta non sarebbe stato così. Una volta, prima di effettivamente scegliere o meno di prendere il gelato, nella mia testa si sarebbero affollate varie domande e varie pensieri e paure: Che ora è? Ha senso mangiare ora? Cosa ho mangiato a pranzo? Ho già mangiato un dolce oggi? Ma ho fatto dell’attività fisica? Cosa mangerò poi a cena? E se poi mamma ha fatto una torta, come faccio? Ma è il caso di prendere un gelato? Che senso ha? Non c’è nemmeno nessuno che lo prende con me, perché dovrei prenderlo da sola? Magari ne prendo uno al gusto di un frutto, almeno è più sano. Poi domani al massimo non mangio dolci. Ma da sola, non ha senso prendere un gelato. Non posso nemmeno poi farlo vedere a mia mamma, per dimostrarle che sono capace di prendere un gelato. Che non ho paura. Ma io paura ce l’avevo. Paura di essere me stessa, paura di permettermi di godere delle gioie che la vita mi offriva. Paura dei miei pensieri e di metterli a tacere. 

È per questo che ora celebro tutta questa naturalezza nella mia testa, la spensieratezza che ho raggiunto dopo tempo. Ed è per questo anche, che mi sento di parlare di questo, che è un problema che è così orrendamente attuale ed in crescita. Nei giovani, nelle ragazze, in noi giovani donne in particolare, è diffusissimo il disturbo alimentare, DCA. E ne parlo perché non ha senso tenere nascoste le proprie paure e le proprie debolezze. Ne consegue solo che esse si rafforzano e sopraffanno la persona. Invece è giusto parlarne, non nascondere, ma esternare, gridare al mondo quanto si sta male, consapevoli che nessuno è mai solo, ma soprattutto che è possibile una via d’uscita.

È possibile guarire.

È possibile tornare a magiare un gelato senza chiedersi il perché.

Seguendo semplicemente la propria voglia, il proprio essere, sé stessi.

 

LA MIA RABBIA AMBIENTALE

Non è vero che alle volte è meglio non sapere. Magari sul momento, è meglio per il nostro umore, non sapere la verità, non conoscere il vero. Ma alla lunga tutto ritorna, e quasi sempre ha conseguenze molto più negative che se avessimo conosciuto la verità prima, appena possibile.

Questo mi è venuto in mente pensando al cambiamento climatico, al disastro che sta accadendo sotto i nostri occhi, sulla nostra terra, anche se noi continuiamo ostinati a rifiutarlo, a negarlo, a distrarci cercando disperatamente delle scuse, delle colpe da dare a qualcun altro. E invece no: è colpa nostra, di tutti noi, del genere umano di cui, fino a prova contraria, facciamo parte. È facile addossare tutta la colpa a chi ci governa, e in parte, secondo me, non è nemmeno totalmente sbagliato. I politici al potere seguono per lo più la logica del profitto, dei soldi, del guadagno, della produttività, della velocità, del “minor costo/sforzo, massimo risultato”. Tutto questo non è compatibile con la terra e con il suo ecosistema, non va di pari passo né con la nostra salute, né con quella del pianeta. E nonostante ciò, non sono/siamo in grado di pensare alle conseguenze delle nostre azioni a meno che non siano immediate. E il fatto è che sono immediate, accadono a milioni di persone, costrette a lasciare le loro abitazioni per disastri naturali, per impossibilità di vivere su un suolo diventato sterile. 

Ma fino a che non capitano a noi, non ci preoccupano. Non meritano la nostra attenzione

Vorrei che tutti noi ci rendessimo conto che è necessario fermarci, ora. Smettere di maltrattare la terra, ma, se vogliamo essere più egocentrici ed egoisti e individualisti, aggettivi che mi sembra descrivano bene la società odierna, dobbiamo smettere di maltrattare noi stessi. A cosa è servito evolvere così tanto la scienza, se poi non ci fidiamo? Siamo pieni, pieni di dati che dimostrano che mangiare la carne proveniente da allevamenti intensivi ci fa male, siccome gli animali sono imbottiti di antibiotici; che mangiare frutta e verdura proveniente da chissà dove e non biologiche, ha conseguenze sulla nostra salute per l’uso di sostanza tossiche per l’organismo; che mangiare la carne più di tot volte a settimana, i salumi, non fa bene, ma peggiora la salute del nostro organismo. Nonostante tutti questi dati, ci tappiamo le orecchie e andiamo avanti. Troppo abituati all’idea del “si è sempre fatto così”; del “sono cresciuto così”, del “non è mai morto nessuno”, del “tanto sono solo animali, non sono uomini”, del “è una cosa eccessiva e troppo radicale”, della critica continua, del giudizio continuo. Senza informarsi! Senza avere prove a sostegno della propria opinione, ma solo per parlare, parlare, parlare. Cercare la ragione solo con la parola ma senza il significato. Io non reggo questa contraddizione, questa società in cui mi ritrovo a vivere, in cui tutti vogliono avere ragione, in cui tutti vogliono prevalere. Dove è finito l’ascolto?  Dove è finito l’aiuto reciproco? Nemmeno l’amore esiste più, perché se esistesse, i genitori avrebbero a cuore il futuro dei propri figli, e la loro priorità sarebbe quella di accertarsi che essi possano avere una vita felice, e lunga, e sana. Cosa che, se continuiamo così, non accadrà. Io penso che ci manchi il coraggio e la voglia di cambiare idea e prospettiva. La voglia e il coraggio di mettere al primo posto questo, è la nostra salute! Si dice sempre “la salute prima di tutto”, ma se si guarda ai fatti, sembra una battuta. Nessuno si interessa di tentare di fare del bene, anche se nel suo piccolo. Tutti si sminuiscono troppo, paradossalmente, quando si tratta di fare qualcosa, quando si tratta di agire consapevolmente e, probabilmente, controcorrente. Perché è una minoranza quella che ha coscienza di tutto ciò, e che si impegna, nel suo piccolo, e che si informa. 

A mio parere, se riuscissimo già solo a risolvere il problema della disinformazione, sarebbe una grande vittoria. Rendere tutti, obbligatoriamente, coscienti della situazione della terra, che poi quella della nostra salute, e che quindi dovrebbe essere, come ho già detto, la nostra priorità. Dovrebbe essere la principale preoccupazione dei politici, del governo, dello stato, di chi ci tutela. Immagino come farebbe aprire gli occhi alla comunità e al popolo italiano vedere, per esempio, il documentario che ho appena visto al cinema “Food for Profit”. Dovrebbe essere obbligatorio e no, non lo dico perché sono un’estremista, una pazza, no. Lo dico perché sento dentro di me una rabbia così energica che non posso far altro che cercare modi per buttarla tutta fuori. E sono convinta quando dico che vorrei che tutti sapessero. Perché la verità ora è che pochi, troppo pochi sanno. Non dico di stravolgere la nostra vita: dico che bisogna darsi la possibilità, siccome c’è, di conoscere. L’uomo è fatto di conoscenza, l’uomo è curioso, vuole sapere, solo sapendo si arricchisce, migliora, evolve, cresce. E l’uomo deve in qualche modo recuperare quella consapevolezza vecchia come Socrate, del “so di non sapere”. Deve fare un passo indietro. Deve essere umile. Deve avere il coraggio di mettersi dietro a cose che non conosce. Ammettere che non le conosce. E avere al contempo, quindi, la voglia di conoscere. Lo stimolo. 

Basta questa indifferenza, basta questa ipocrisia del dire “non è normale questo caldo, non è normale che non nevichi”. Se non è normale, perché stiamo fermi? Ce lo facciamo passare sopra senza cambiare nulla, senza pensare di poter fare la differenza. 

Immagino come sarebbe stupendo se, dopo aver preso coscienza dei fatti, smettessimo di comprare quel petto di pollo ultrascontato al supermercato. Se smettessimo, quindi, di finanziare quelle enormi lobby che provocano, da sole, un’enorme parte di inquinamento atmosferico. In quelle fabbriche di morte, che non esagero a paragonare a campi di concentramento per animali, non vi è nulla che giochi a nostro favore. Niente che giovi alla nostra salute fisica, al nostro benessere mentale, alla nostra vista, al nostro olfatto. Alla nostra morale, alla nostra etica. 

Io scrivo queste cose per difendere una e una sola cosa: l’informazione. Non è vero che è meglio non sapere. Bisogna avere il coraggio di guardare negli occhi ciò che ogni giorno finanziamo, contribuiamo a far continuare, consumando prodotti che provengono da allevamenti intensivi. Guardare negli occhi e con gli occhi cosa stiamo facendo. Perché siamo noi, e non è vero che la colpa è di chi ci governa. I soldi li versiamo noi, fino a che continueremo a pagare per far sussistere queste fabbriche enormi, allora saremo nel torto quando diremo “e ma il cambiamento climatico”, “e ma è colpa dei politici che non sanno governare”. 

Scrivo con questa energia e questa rabbia perché CREDO che possiamo ancora cambiare. Se non ci credessi sarei rassegnata e non mi sprecherei a scrivere. Ma siccome sono giovane, sono colma di speranza, di energia, di buona volontà, sono propositiva, io spero. Io combatto, fino a che ho le energie. 

Chi se non noi? Chi se non io? 

Tutti, tutti, tutti possiamo fare la differenza. Se non inizi tu, non inizierà mai nessuno. Ora.

 

La conversazione (è) necessaria, da un libro di Sherry Turkle

Di recente ho sostenuto un esame in università dal titolo “Storia e teoria dei media digitali”; contrariamente a quanto può sembrare dal nome, si è rivelato estremamente attuale e interessante, al punto che mi ha spinto a citare in questo articolo uno dei libri di studio (cosa abbastanza inusuale: solitamente, dopo un esame, non vedo l’ora di liberarmi dei volumi letti e riletti). 

L’argomento è la conversazione, quella che avviene tra due persone, in un gruppo, con noi stessi. E’ un tema che mi è molto vicino, a cui sono sensibile soprattutto pensandolo in rapporto alla tecnologia. La tesi sostenuta dall’autrice, in sostanza, è che l’avvento dei media digitali, e soprattutto dello smartphone, abbia ridotto notevolmente la nostra capacità, voglia, necessità, facoltà, desiderio di conversare. Che la abbia, quindi, decisamente modificata, a favore di una conversazione che avviene dietro gli schermi e non più dal vivo. Questo ha causato diverse conseguenze, soprattutto in noi giovani: apatia, mancanza di lessico, chiusura in noi stessi, timidezza maggiore, non capacità di sentire e metterci nei panni dell’altro, pigrizia, indifferenza verso gli altri, e potrei andare avanti a lungo (ma qua ve lo risparmio: leggetevi il libro!) 

Io mi rendo conto quotidianamente di quanto questo sia vero, e ne sono altamente preoccupata. Mi fa paura pensare ad un mondo in cui la gente preferisce davvero videochiamarsi piuttosto che vedersi di persona, toccarsi, stringersi, sentire l’altro, che non vuol dire solamente avere un contatto fisico, ma un contatto visivo, percepire le emozioni, i battiti, guardare negli occhi e ascoltare. Mi fa paura come le persone possano preferire risolvere i propri problemi scrivendosi messaggi su Whatsapp piuttosto che dal vivo, come possano preferire comunicare i propri sentimenti tramite delle parole virtuali, che sono così fredde e quasi “fantasma”. 

Mi fa paura che non siamo più in grado di capire l’altro, e non abbiamo voglia di fare quella fatica in più per vedersi dal vivo e parlarsi in “live”, qui e ora. Perché è vero: senza telefono, e tutto ciò che gli gira attorno, è tutto molto più faticoso. È più faticoso dirsi le cose che non vanno dal vivo, ma anche le cose che vanno: quanto è difficile, per esempio, dire ad una persona quello che provi guardandola negli occhi, avendola a un passo di distanza? Ma quanto è, infinitamente, più vivo? Quanto è più vero, quanto vale di più, rispetto che stare coricato sul letto scrivendo un messaggio e aspettando una risposta, sperando di non avere un “visualizzato”. 

Siamo esseri sociali, abbiamo bisogno dell’altro: il telefono ci illude, facendoci credere di poter avere queste relazioni con gli altri tramite messaggi, videochiamate, post su Instagram, una vita online. La vita vera è al di fuori. Come sono al di fuori le nostre principali esigenze per sopravvivere: dormire, mangiare, respirare, stare con gli altri: sono cose che non è possibile fare col cellulare. 

Oltre che a ridurre la relazione con gli altri, il telefono azzera anche la relazione con noi stessi, che è invece essenziale per la crescita personale e per il benessere dentro e fuori. A causa del telefono non abbiamo più un momento di “nulla”. In cui non facciamo assolutamente niente, in cui siamo fermi senza alcuno stimolo dall’esterno, ma semplicemente noi, in pace. Tendiamo a considerare questi momenti come “noia”, quando sono invece i momenti in cui c’è la maggiore probabilità che ci vengano idee, illuminazioni, insomma che nascano cose belle e positive per noi stessi. Non siamo più capaci di non far nulla, appena abbiamo un momento libero infiliamo la mano in tasca e stringiamo tra le mani il cellulare, come se fosse l’oggetto che ci salva dal momento di “vuoto” in cui, altrimenti, saremmo caduti. Ma non è così. Il cellulare ci sa intrattenere, ma è un intrattenimento passivo, che ci lascia ancora più vuoti di come eravamo prima. Alziamo lo sguardo dallo smartphone e fissiamo con occhi vitrei ciò che abbiamo davanti, prima di ricollegare dove siamo e cosa stiamo facendo, uscendo dalla bolla in cui il cellulare ci isola. 

Forse sono stata troppo severa, troppo negativa, troppo pessimista. Ma queste parole mi sono venute così, istintivamente, da dentro, dopo una mezza giornata che ho passato del tutto scollegata. Avevo bisogno di quiete e pace, ho deciso (non a cuore leggero, non è una scelta così semplice e facile, purtoppo), di non guardare più il telefono fino a quando lo avessi ritenuto necessario (fino ad adesso, sono sei ore!). E sono incredula per quanto sia riuscita a respirare, ad ascoltarmi, a fare le cose con più calma; mi sono data il tempo per pensare, per stare con me, e sto davvero molto meglio di questa mattina. 

In una giornata in cui non vi serve il cellulare per esigenze strettamente pratiche, ve lo consiglio: praticate questa disconnessione per riconnettervi con il vostro io interiore. Sono sicura che gli effetti non potranno che giovare alla nostra salute e alla nostra vita. 

CAMERA (Centro Italiano per la Fotografia)

Torino, 13 febbraio 2024

Non ero mai stata prima d’ora all’inaugurazione di una mostra. C’é una differenza tra visitare una esposizione, girare a zonzo tra le opere esposte, e invece avere la consapevolezza del perché e del come si è scelto di far vedere proprio quel soggetto lì, proprio in quel luogo.

È quello che mi è successo martedì 13 febbraio, quando mio papà mi ha invitata all’inaugurazione di tre mostre fotografiche alla Camera di Torino. All’inizio, non mento, non sapevo bene come comportarmi: sono una studentessa universitaria che ancora non sa cosa vuole fare nella sua vita e della sua vita, ma l’interesse e l’amore che provo nei confronti della cultura in generale bastava a motivare, almeno a me, il perché fossi lì. Anzi, forse proprio il fatto di non sapere su cosa concentrarmi, su quale strada prendere, ma essere aperta a tutte, ha giocato in mio favore.

Esco da lezione di Teatro educativo e sociale con qualche minuto di anticipo, e mi avvio verso la Camera che è vicinissima alla mia università. Fuori vedo giornalisti, chi con delle cartelline in mano, chi con le videocamere e microfoni, chi semplicemente senza niente se non sé stesso e un’aria tranquilla stampata in volto. Seguo mio papà dentro, e scrivo “1000Miglia” nello spazio indicato con “testata”, nel registrarmi all’entrata: mi fa stranissimo! Pensare di essere lì per poi scrivere, è una cosa che mi sembra così lontana dalla mia vita che ora è prevalentemente studio, mentre i lavoretti che ho svolto fino a questo momento sono sempre stati qualcosa di lontano dal mio percorso di studi: il Dams. Invece ora mi sembra di stare facendo qualcosa legato a quello che sto studiando: qualcosa che c’entra con il mio possibile futuro lavoro? Chissà…

“Divertiti”, mi dice Fabri (mio papà), e allora faccio proprio come mi sento. Giro con le mani incrociate dietro la schiena, come Socrate, (o almeno, come io mi immagino facesse Socrate), e inizio a osservare le fotografie di Michele Pellegrino, che è nato proprio a Cuneo, nel 1934, e che è inoltre presente lì in quel momento. Da subito ciò che vedo mi colpisce, perché le prime foto sono quelle di montagna, ritraggono le valli che frequento io d’estate soprattutto, ma anche in inverno. C’è il Lago di san Bernolfo, sopra i Bagni di Vinadio, ripreso in una luce calda e con un’atmosfera bloccata nel tempo. Osservare la bellezza di luoghi in cui sono stata, mi ha suscitato un sentimento di gratitudine e di orgoglio per la mia terra. Proseguo e vedo volti lontanissimi da quelli che per la maggior parte del tempo invece scorrono sullo schermo del mio telefono, sulle riviste di moda, sui giornali.

Gli scatti di Michele riportano l’indole di gente che non desidera apparire, che non sa nemmeno il perché dovrebbe mai lasciarsi fotografare, e che magari, infatti, nemmeno era del tutto d’accordo. Su quei volti sono segnate le fatiche di una vita vissuta nelle terre dure e sconfinate della montagna, in alto, lontani da tutto e da tutti. La fatica concreta di procurarsi il cibo giorno dopo giorno, di riscaldare la casa, di crescere i propri figli sani e forti. Niente a che vedere con i ritratti di oggi, dove vedo tanta voglia di apparire, tanta ansia di ricevere approvazione per avere degli occhi così ben truccati, dei corpi così tonici, perfetti, una pelle liscia e senza cicatrici.

Ciò che vedo mi riporta con la mente ad una realtà che sembra essere ormai lontana nel tempo, e nello spazio, ma non del tutto estinta; mi fa venire voglia di cercare quelle persone che ancora non sono state toccate dalla società di oggi, così piena di falsità e superficialità, quelle persone che ancora pensano un pensiero alla volta: prima mungo la mucca, poi faccio il formaggio, poi pianto i semi, poi accendo il fuoco. Mi affascina sapere che ancora esistano persone così. Proseguo e i miei occhi incontrano gli edifici austeri e isolati dei monasteri, e poi gli sguardi indecifrabili delle coppie in prossimità del matrimonio; chissà cosa passava nelle loro menti, quali erano i loro pensieri, se da lì a poche ore si sarebbero sentiti liberi e infinitamente felici oppure se sarebbe iniziata per loro una vita che non avrebbero mai desiderato.

Quando ascolto, durante la conferenza stampa, i racconti di Michele, tutto mi sembra ancora più vero e concreto. Racconta di come lui ha sempre cercato di cogliere la verità, che non necessariamente significa bellezza. Parla di quando era arrivato in Valle Stura “un americano”, come lo chiama lui, che aveva iniziato a fotografare la montagna, e se ne era innamorato. Le sue foto erano state esposte, premiate, all’interno di alcune mostre, e ogni anno il fotografo tornava a Cuneo, chiamato per documentare la bellezza dei paesaggi alpini. Michele afferma che quando vide le fotografie scattate dallo straniero, non riconobbe i luoghi che lui pure conosceva come le sue tasche, avendo passato la vita in quei posti (riporta l’esempio di Vinadio: “nella didascalia c’era scritto Vinadio, ma a me non pareva proprio per niente Vinadio!”).  Questo perché lui era sempre stato interessato a riportare la vita di chi ci viveva, in montagna, di chi sapeva cosa voleva dire avere a che fare ogni giorno con le fatiche e le sofferenze che un luogo così porta, mentre “l’americano”, aveva colto forse solo la bellezza superficiale della Valle, senza indagare a fondo cosa significasse davvero un filo d’erba, una roccia, una sorgente, per gli abitanti.

Bello come Michele abbia deciso di donare tutto il suo portfolio alla fondazione CRC nel 2017, così che “finalmente”, dice lui, “la gente ha potuto conoscere cosa stava succedendo davvero nelle valli cuneesi, che si stavano lentamente, ma inesorabilmente, spopolando”. Lo dice con orgoglio, con soddisfazione, ma non lascia trasparire il dolore che, sotto sotto, tutto questo gli provoca. E la collaborazione con Camera sicuramente riesce a realizzare la volontà più forte e urgente del fotografo, quella di raccontare tutto ciò che lui aveva ascoltato, visto, vissuto, nell’arco di una vita. E nel profondo io mi sento di ringraziare Michele, per la forza che ha avuto nell’intrufolarsi nelle case di chi non accetta altri, di chi non desidera farsi conoscere, di chi non può incontrare nessuno all’esterno della clausura. Per aver avuto il coraggio di portare avanti la passione, pensandola proprio come una priorità, senza fretta e aspettando il momento perfetto, oppure cogliendo proprio l’istante di uno sguardo, una lacrima, un pensiero che si fa fotografia.

Ricevi i nostri aggiornamenti

Ricevi i nostri aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter di 1000miglia per non perderti nemmeno un articolo! Una mail a settimana, tutti i martedì.

Grazie per esserti iscritto!