15 Aprile 2015 | Vorrei, quindi scrivo
“Non ce la faccio, ti prego.”
“Fallo.”
“Non ci riesco.”
“Fallo, ho detto.”
“Non posso”
“Devi.”
“E’ la mia famiglia.”
“Dimenticala.”
…C’è un momento nella nostra vita in cui capiamo chi siamo, chi siamo sempre stati, chi continueremo ad essere. Ma a volte, in un momento possiamo perderci per sempre, sprofondando negli abissi più profondi… Sentiamo la terra cedere sotto i nostri piedi, il baratro spalancarsi, e cadiamo, giù, sempre più in fondo. E speriamo con tutto il cuore che qualcuno ci porga la mano, ci afferri, ci tragga in salvo. Ma quella mano adesso non c’è.
Uno sparo. Due. Tre. Dieci. Non si contano più. Il tonfo della caduta. Un urlo. Una lacrima.
“Bravo.”
Khamal, bambino soldato
Cara mamma, caro papà,
Stasera ripenso a voi dopo tanto tempo. Saranno le stelle che mi fanno questo effetto: le vedo brillare da una fessura nella mia capanna, e sono così belle che mi fanno pensare a quando ero ancora a casa con voi e le osservavo con Pariah mentre nonna ci raccontava le Storie degli eroi. Penso spesso a quelle storie, soprattutto mentre sono giù in miniera. A volte temo di non farcela, ma poi penso a voi, al debito da saldare per il quale mi hanno portato qui, e allora non mi fa paura niente e riprendo subito il lavoro. Perché mamma, papà, io diventerò un eroe, proprio come quelli delle storie della nonna! Salderò il vostro debito, e allora mi toglieranno questa catena e potrò tornare a casa da voi, riabbracciare Pariah, ascoltare ancora le storie della nonna sotto le stelle. Sì, tornerò da eroe! E allora nel villaggio si racconteranno le mie imprese, come sopravvissi ai mostri più crudeli, come non piansi neanche quando persi i miei compagni, come imparai a non avere paura del buio.
Ecco, le stelle si spengono, proverò a dormire un po’. Fra non molto verranno a prendermi e dovrò essere in forze per affrontare un’altra impresa! Ce la farò, sarò il vostro eroe! Buonanotte mamma, buonanotte papà. Non dimenticatemi. Tornerò.
Youssef, bambino lavoratore
Ti ho sempre amato, oh mare. Da piccola eri il mio compagno di giochi e di avventure; mi affascinavi con la tua potenza, mi spaventavi con la tua immensità, ma solo con te mi sentivo al sicuro. Sono cresciuta assieme a te, avvolta dalla melodia delle tue onde e trovando sulle tue sponde sempre conforto in ogni momento. E adesso, ora che sono una donna, ora che sono una madre, ancora una volta, oh mare, mi affido a te. Sono qui, su questa fragile barca, con il mio bambino, come tanti altri uomini e donne: la nostra vita è nelle tue mani. Cullaci come cullavi me da bambina, donaci quel conforto che ho sempre percepito nell’abbraccio del tuo vento, tieni accesa la nostra speranza come tante volte hai fatto nella mia vita. Portaci all’altra sponda, mare mio, portaci lontano dalla guerra che ha distrutto la nostra terra, lontano dalla morte che ha rapito i nostri fratelli, lontano da tutto quel dolore che ogni cuore spera non dover mai più provare. Portaci verso la libertà, verso la pace. Non ti dimenticare, mare, di una tua vecchia amica fedele. Io mi affido a te.
Farzana, migrante clandestina
A volte mi chiedo chi sono. Se conto ancora qualcosa. Se sono più di un numero su un tesserino, se valgo più di quel che produco, se ho ancora un’anima o se sono solo un ingranaggio di una macchina che di me ha bisogno finché funziono. Non ci penso spesso a queste cose, ma quando lo faccio ho paura. Ho paura perché ciò che dovrei temere è invece una tremenda normalità. Sì, è normale. Qui a Tokyo si chiama karoshi, “morte da troppo lavoro”, ed è considerata una morte dignitosa, un onore, una gloria: la vita che ci abbandona va ad alimentare ciò per cui l’abbiamo perduta, e di ciò dobbiamo essere grati. Ho 42 anni, lavoro per 18 ore ogni giorno in una fabbrica alla periferia della città. La mia vita, se mai ne abbia una, mi sfugge senza che io possa fare nulla. Non ho tempo né forza per vivere, sono solo, e probabilmente lo sarò sempre. Nei rari momenti in cui ho il coraggio di pensare, ho paura: mi vedo in gabbia, ma non ho nessuna chiave per liberarmi. Ma esiste forse un modo per liberarsi della normalità?
Shoan, operaio
Annamaria De Lilla
20 Marzo 2015 | Vorrei, quindi scrivo
Cosa c’è di più forte del legame tra padre e figlio? Spesso lo diamo per scontato, ma quanto straordinaria sia quella forza che unisce indissolubilmente due esseri ce lo dimostrano un padre e un figlio un po’ speciali, Dick e Rick Hoyt.
Rick nasce nel 1962 con una paralisi celebrale, che gli impedisce di parlare e di camminare; i medici consigliarono ai genitori di ricoverarlo in una clinica specializzata perché le possibilità per lui di avere una vita “normale” erano poche; Dick e Judy però non si arresero e crebbero Rick come gli altri loro due figli: facendoli giocare, nuotare, imparare assieme…grazie ad uno speciale rilevatore ottico Rick infatti riesce a comunicare con il resto del mondo, rivelando un’intelligenza vivace.
Nella primavera del 1977 Rick chiese a suo padre di partecipare a una corsa di beneficenza in favore di un giocatore di lacrosse rimasto paralizzato. Nonostante Dick non avesse mai corso in vita sua, decise si accontentare il figlio, spingendolo in carrozzina per tutte le 5 miglia del percorso, concludendo la gara all’ultimo posto.
La sera, tornati a casa, Dick disse a suo padre: “Papà, quando corro, mi sembra di non essere disabile”.
Queste parole colpirono profondamente Dick, che da quel momento iniziò ad allenarsi duramente ogni giorno, correndo con pesi alle caviglie e uno zaino pieno di sassi sulle spalle per abituarsi a sopportare il peso del figlio.
Sebbene all’inizio la loro partecipazione alle gare fosse osteggiata dagli organizzatori perché non rientravano in nessuna categoria, Rick e Dick cominciarono a correre maratone, biathlon, triathlon.
Nelle competizioni di triathlon, Dick trascina Rick in un gommone con una corda attaccata al suo torace per la parte di nuoto, per la bici Rick guida un mezzo speciale a due posti, mentre per la corsa Dick spinge Rick in una carrozzina costruita da lui personalmente.
Nel 1992 il Team Hoyt, come i due hanno iniziato a essere chiamati, hanno attraversato gli Sati Uniti coast-to-coast di corsa e in bici, percorrendo 3735 miglia in 45 giorni.
Nel frattempo Rick è riuscito ad essere ammesso al liceo e poi all’università di Boston, laureandosi nel 1993 in Educazione per disabili.
Il team ha continuato a correre, partecipando a più di 1100 gare, tra le quali sei IronMan.
Nel 2012 Dick ha mantenuto fede a una promessa fatta quasi quarant’anni fa quando partecipavano alle prime gare: compiere 70 anni correndo la maratona di Boston, la corsa preferita di Rick.
Un giornalista una volta chiese a Rick: “Se potessi dare qualcosa a tuo padre, cosa sarebbe?” e Rick rispose: “ La cosa che mi piacerebbe di più per mio padre sarebbe farlo sedere cosicché possa spingerlo io per una volta” .
Il team Hoyt non ha alcuna intenzione di andare in pensione, e si sta allenando per l’edizione 2015 della maratona di Boston.
“Yes you can”, il loro motto, ci ricorda quante paure e ostacoli prima ritenuti insormontabili possano essere superati, se l’amore è il motore delle nostre azioni.
Agnese Lerda
8 Marzo 2015 | Eventi
Si parla di emancipazione, di uguaglianza tra i sessi.
Si vendono, regalano e ricevono mimose.
Ci si sente per un giorno, come spesso capita in occasione di ricorrenze particolari, parte dello spirito che questo giorno si porta dietro: liberi, aperti, proiettati verso il futuro.
Ci si dimentica, o forse semplicemente si evita di pensare, ai diritti ancora negati. Non parlo solo di quelli evidenti, delle spose bambine, delle ragazze obbligate a prostituirsi, degli innumerevoli casi di stupro e violenza, di tutte quelle notizie che stimolano immediatamente, e giustamente, il nostro senso di ingiustizia.
Parlo anche delle piccole discriminazioni quotidiane, quelle che avvengono proprio in quegli ambienti in cui le abissali differenze di un tempo sembrano superate. Delle “quote rosa” che obbligano un imprenditore ad assumere una certa percentuale di donne, come se si trattasse di una categoria troppo debole per essere considerata meritevole. Di quelle aziende che assumono donne a condizione che per un certo periodo non facciano figli. Della strumentalizzazione dell’immagine femminile, con tutto il carico di responsabilità da parte delle stesse donne che essa comporta. Delle tante reazioni alla spedizione sulla Stazione Spaziale Internazionale da parte dell’astronauta italiana Samantha Cristoforetti: laureata in ingegneria meccanica e scienze aeronautiche, selezionata come astronauta risultando una dei sei migliori tra 8500 candidati, ma non immune ai commenti sul suo aspetto fisico e alle battute sulle sue capacità di parcheggiare la navicella.
Eppure Samantha, come tante altre donne, è d’ispirazione. Non per il fatto che sia una donna e abbia raggiunto dei risultati. È d’ispirazione, per chiunque, per l’intelligenza, la dedizione, la passione che ha dimostrato. E il suo successo deve motivare, non solo le donne, a realizzarsi.
Come è d’ispirazione Malala Yousafzai, classe 1997, pakistana, premio Nobel per la Pace 2014 “per la lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione”, secondo il Comitato per il Nobel norvegese. Cresciuta in un Paese in cui la condizione femminile è di stretta subordinazione, è diventata un simbolo di lotta, modernizzazione e cultura. Ma sarebbe riduttivo definirla un esempio per le ragazze che inseguono un obiettivo. La sua storia colpisce e manda un messaggio di impegno e speranza universale.
Potrei citare moltissime altre donne che, in diversi campi, hanno dimostrato una passione e una tenacia meravigliosamente motivanti: da Marie Curie a Rosa Parks, da Rita Levi Montalcini a Frida Kahlo, passando per tanti altri nomi più o meno celebri.
Ma voglio farmi prendere un po’ dallo spirito di questa ricorrenza speciale, e regalare una mimosa a tutte le donne d’ispirazione, il cui nome non corrisponderà mai ad una voce di Wikipedia. A tutte quelle donne che si preparano di corsa al mattino, vanno a lavorare e portano i bambini a scuola, tornano a casa con il trucco sbavato e sporcano i fornelli perché rovesciano l’acqua della pasta. A tutte le donne che lottano con i problemi della quotidianità, che siano piccoli o importanti, con la stessa costanza con cui Samantha Cristoforetti ha affrontato gli addestramenti. Con lo stesso coraggio con cui Rosa Parks non ha ceduto quel posto sull’autobus. Con la consapevolezza di poter lottare.
Una mimosa a tutte le donne che ci spingono a migliorarci.
Una mimosa a tutte le donne, in quanto persone, la cui storia provoca non in noi donne, ma in noi persone, una scintilla d’ispirazione.
Una mimosa a tutte le donne i cui successi non sono resi più eroici dalla loro declinazione al femminile, ma che ci fanno meravigliare delle capacità, della perseveranza e della passione di un essere umano.
3 Novembre 2014 | Eventi
Dai primi mesi del 1988 ho cercato, attraverso vari percorsi, O.A.S.I., A.C.A.T., di aiutare e accompagnare le famiglie, le persone con problemi correlati all’alcol, a riprendere il loro ruolo nella vita, nella famiglia e nella società. Un percorso faticoso, ma ricco di umanità vera, di sorprese nello scoprire tanta ricchezza di intelligenza, di sensibilità, di capacità di solidarietà che non si incontrano spesso altrove.
Ultimamente sono stata interessata da notizie sempre più frequenti sulle modalità di bere dei ragazzi dagli 11 anni ai 18.: binge-drinking e ” fino all’ultima goccia”
Dalle informazioni che ho, queste sono modalità di bere, devastanti per il cervello degli adolescenti che non ha ancora compiuto il suo completo sviluppo
La domanda terribile che mi pongo è la seguente: i genitori sono informati di questi rischi? Sanno sempre cosa fanno i loro figli quando non sono con loro?
Le informazioni di cui parlo le ho riprese da ricerche statistiche pubblicate sul sito del Ministero della Sanità.
L’A.C.A.T., Associazione dei Club Alcologici Territoriali, non può restare inerte di fronte ad un problema così grave. Problema che è di tutti, non solo delle famiglie con figli adolescenti. Loro saranno gli adulti di domani, coloro a cui, con responsabilità diverse, saranno affidate le sorti della nostra Società. Sta a noi aiutarli a crescere in modo tale da poter affidare loro la nostra salute, la garanzia del rispetto dei nostri diritti, il rispetto e l’attenzione dei deboli, la giustizia sociale e tutto quanto concorre a creare una società in cui ognuno si sente accolto, rispettato e protetto.
Se però noi non saremo solleciti a fermare in tempo la devastazione che l’alcol può fare sullo sviluppo dei nostri adolescenti, quando sarà ora di passare loro il testimone affinché possano fare quanto sopra auspicato, loro non saranno in grado di farlo. Questo perché la loro crescita avrà subito dei gravi danni, dovuti all’abuso di alcol, negli anni in cui non avrebbero neanche potuto, secondo la legge, bere alcolici e meno che mai bere con le modalità accennate sopra.
Possiamo cominciare a chiederci perché i nostri adolescenti non trovano niente di meglio da fare che devastarsi con l’alcol per far passare il tempo?
Bisognerà trovare il modo, le strategie per fermare questo trend devastante, per ridare senso alla vita dei nostri adolescenti
Forse, cammin facendo, abbiamo perso dei valori fondanti della nostra vita e per questo non sappiamo o possiamo trasmetterli ai nostri figli.
Però, se lo vorremo, potremo ancora ritrovarli.
Elisa Beccaria
24 Settembre 2014 | Vorrei, quindi scrivo
Il rischio che si corre studiando materie scientifiche è quello di distaccarsi da esse. È successo a tutti, almeno una volta. Memorizziamo concetti, formule, nomi complicati, magari ne comprendiamo il funzionamento, magari riusciamo a risolvere i problemi a fine capitolo…ma tutto come se ci occupassimo di qualcosa di astratto. Studiamo, e l’idea che quel processo, quella legge fisica hanno a che fare con noi, la consapevolezza che in un certo senso dipendiamo da essi, non è che un lontano presentimento.
Certo, è difficile immaginare, ad esempio, il lavoro degli enzimi che nelle nostre cellule partecipano alla duplicazione del DNA, o la trasmissione degli impulsi nervosi che dal cervello raggiungono, in una frazione di secondo, qualunque parte del nostro corpo. Personalmente mi vengono i brividi quando cerco di rendermi conto di tutto ciò che accade dentro di me senza che me ne accorga. Per non parlare del concetto di fotone: una particella di luce che però non è proprio una particella, ha una frequenza, come le onde, viaggia alla velocità della luce e ha massa uguale a zero. Fantascienza. Non mi avventuro, perché non ne sono in grado, nella matematica che traspare dalla realtà, dalla natura che ci circonda, ma una persona più preparata potrebbe scrivere un’enciclopedia a riguardo.
Se ricordassimo come le regole scritte sui nostri libri non siano solo una “materia”, ma il modo in cui funzioniamo e in cui funziona il mondo intorno a noi, impararle sarebbe, non dico più semplice, ma forse più interessante. Ma questo è un concetto, malgrado noi studenti distratti, piuttosto chiaro: se qualcuno ha descritto la respirazione cellulare, è perché davvero nelle cellule dei viventi il glucosio e l’ossigeno vengono trasformati in energia, acqua e anidride carbonica. E se succede davvero, succede anche nelle mie, di cellule.
Dietro a quelle pagine piene di formule si nasconde qualcosa di meno immediato, e forse più sorprendente, qualcosa per cui devo contraddire ciò che ho scritto e ragionare su un piano più astratto. Alcuni concetti legati al mondo scientifico possono essere letti come metafore. Splendide e reali metafore della condizione umana, della nostra vita, non nel senso biologico del termine, ma della vita interiore, fatta di emozioni e pensieri, appunto, astratti.
Una delle caratteristiche che distingue gli organismi unicellulari dai pluricellulari, ad esempio, è la morte. Gli unicellulari, come i batteri o i lieviti, sono potenzialmente immortali. Si riproducono per divisione cellulare e ogni cellula madre, pur smettendo di esistere, trasmette alle generazioni successive tutta la materia di cui è composta, senza mai andare incontro, salvo incidenti di percorso, ad una fine vera e propria. La morte è, se così si può dire, il prezzo che i pluricellulari pagano per la loro complessità, e per i vantaggi che essa comporta. Esattamente come l’uomo paga, con una sofferenza maggiore rispetto agli altri animali, la propria maggiore intelligenza. Non credo che Pascal, definendo l’uomo una “canna pensante”, intelligente e quindi consapevole della propria fragilità, e per questo tormentato, avesse in mente unicellulari e pluricellulari. Ma la natura ha rappresentato lo stesso concetto del filosofo francese, anche se in modo meno esplicito.
Un altro esempio è dato dal concetto di entropia, ovvero il “livello di disordine” nei sistemi, e da ciò che ne deriva. Tutto ciò che esiste in natura infatti si disordina, tende cioè ad abbassare il proprio livello di energia per raggiungere una maggiore stabilità e un maggiore equilibrio con l’ambiente, come succede all’acqua di una cascata che si muove dall’alto verso il basso o ad una tazza di tè che si raffredda.
L’eccezione a questa tendenza è data dai viventi, che sono tali in quanto ordinati. Questo significa che siamo, in qualche modo, in contrasto con l’ambiente esterno, ma ciò nonostante non possiamo fare a meno di scambiare energia con esso. Il punto è che se un essere vivente viene attraversato da un flusso maggiore di energia, entra in crisi. E ha due possibilità: può tracollare, oppure evolversi, raggiungendo un nuovo, superiore ed imprevedibile livello di ordine. Questo processo porta alla comparsa di strutture sempre più complesse, non solo a livello biologico. Fronteggiare un momento di crisi che, se superata, porta ad un miglioramento, è il concetto che sta alla base della nostra crescita, dell’apprendimento, del progresso tecnologico, dell’evoluzione dei rapporti tra noi e le persone che amiamo. Qualunque cosa ci disorienti può essere considerata un flusso maggiore di energia che ci attraversa. Possiamo collassare, oppure lottare per vincere il momento difficile, e raggiungere un “superiore livello di ordine”. Crescere. Imparare da un’esperienza.
È impressionante come un processo chimico-fisico-biologico, alla base di qualcosa di “distante” come l’origine della vita e l’evoluzione, rispecchi così chiaramente ciò che accade durante le nostre giornate.
Ecco il motivo per cui si studia: in ogni argomento, riferito a qualsiasi ambito, si trova qualcosa. Non solo semplici informazioni, che possono piacerci oppure no, essere più o meno interessanti.
Se ci si sforza di leggere in profondità, di pensare a ciò che si studia in maniera non convenzionale, di guardare processi, formule, ma anche poesie e romanzi, da più punti di vista, si scopre qualcosa che parla di noi. E allora quell’argomento, qualunque esso sia, diventa vero, stimolante, appassionante. Compare, ogni tanto, nei nostri pensieri, anche dopo l’interrogazione o l’esame. Ci spinge a parlarne ai nostri amici, o ai nostri genitori. Si stacca dalla massa grigia e indistinta delle “cose da studiare”, e diventa nostro. Una metafora che spiega, forse con un linguaggio che mai avremmo usato, una parte nascosta di noi stessi.
Anna Mondino