13 Gennaio 2017 | Si può fare
Il concetto di Coworking, introdotto a Cuneo da Ping, nasce dall’idea di mettere a disposizione di diversi professionisti e realtà imprenditoriali ambienti e strumenti di lavoro, nell’ottica di condividere non solo gli spazi, ma anche le idee e le competenze, risparmiando ad esempio sui costi di un ufficio o di una sede. C’è chi immagina che questa sarà la modalità lavorativa del futuro, in cui non ci si siederà più alla propria scrivania o nel proprio studio, ma si utilizzeranno appunto spazi di lavoro condiviso, in cui a fare la differenza sono le persone, e non le stanze in cui si trovano. Ma per chi è abituato a vivere nel presente può non essere immediato immaginare una situazione lavorativa di questo genere. Per chiarirci le idee, abbiamo fatto due chiacchiere con Francesco Tomatis, architetto che ha deciso di sfruttare la possibilità di coworking offerta da Ping.
Di cosa ti occupi e com’è organizzato il tuo lavoro?
Sono un architetto freelance; attualmente collaboro con uno studio d’architettura di Monaco, in cui lavorano due architetti, una segretaria, un direttore di cantiere. Io mi occupo della realizzazione di disegni esecutivi e di progettazione.Lavoro in Francia per tre o quattro giorni a settimana, e ritorno in Italia il venerdì. Sono così organizzato: il lunedì ed il venerdì lavoro da Cuneo, e i restanti giorni mi trasferisco in Francia.
Perchè la scelta di approdare in una realtà di coworking come Ping?
Al di là dell’amicizia con Matteo Conterno (parte del team di Ping), avevo bisogno di una postazione, per i giorni in cui non sono in Francia, che mi garantisse la possibilità di gestire il mio lavoro in modo professionale.
L’organizzazione di Ping permette infatti di affittare, sia una tantum, come servizio singolo, sia sotto forma di abbonamento, spazi che vanno da una postazione singola alla sala conferenze, passando per uffici privati e sale riunioni. Oltre agli ambienti vengono offerti la connessione wifi in banda larga e l’utilizzo della Lounge Area. In più, in particolare lavorando in una postazione dell’area Coworking, c’è la possibilità di trovarsi a contatto con altre persone, con interessi, competenze, modi di pensare simili ai propri, o completamente opposti. E siccome il confronto è l’unico vero modo per crescere, questa sembrerebbe la ricchezza maggiore.
13 Dicembre 2016 | Si può fare
Il mondo del lavoro di oggi sta subendo una serie di rivoluzioni.
Tra queste, l’affermarsi delle “Start up”, termine che di fatto indica un’azienda o una realtà imprenditoriale all’inizio del proprio percorso, ma che nel nostro immaginario evoca progetti giovani, innovativi, tecnologici. Lo stesso Ping, “incubatore-acceleratore” di idee nato nel cuneese, punta proprio all’investimento in nuove idee ed intuizioni che sono o possono trasformarsi in “start up”.
Pensando a questo tipo di realtà lavorativa però, si pensa in genere ad un ambito imprenditoriale piuttosto ristretto: tecnologia, semplificazione di attività attraverso App e software, applicabili al mondo dell’economia, del commercio, dell’informatica.
Ma nella classifica delle migliori start up dell’Università Bocconi (menzione come Social Innovation Start up 2016) ce n’è una che si rivolge all’ambito sanitario, in particolare al mondo della riabilitazione. La società Play to Rehab (P2R) è infatti nata dall’idea di un gruppo di fisioterapisti ed esperti di software, con lo scopo di fornire strumenti tecnologici applicabili sia in ambito medico-riabilitativo, sia in ambito sportivo.
Ed ecco nascere il prodotto NiuRion, un sistema che rende il trattamento fisioterapico non solo “hi-tech”, ma anche più divertente e motivante.
Con l’interfaccia simile a quella di un videogioco, il sistema è dotato di sensori inerziali per la cattura del movimento, inseriti all’interno di una maglia o di un pantalone indossati dal paziente e collegati ad un software compatibile con pc, tablet, smartTV, consolle per videogame.
La seduta riabilitativa diventa quindi un gioco, in cui i movimenti richiesti al paziente non sono fini a se stessi, ma funzionali al raggiungimento di uno scopo che il gioco, e quindi il riabilitatore, pone.
Inoltre, questo sistema permette un’analisi oggettiva del movimento, le cui componenti vengono costantemente controllate e registrate, e consente al paziente di operare a casa, in modalità “on-line”, sfruttando un contatto diretto col terapista, incrementando anche la possibilità di accesso ai servizi sanitari senza doversi recare fisicamente nei centri di cura.
In una professione come quella del riabilitatore, la creazione di una relazione tra operatore e paziente è uno degli aspetti fondamentali per la riuscita del trattamento. La sfida perciò è proprio quella di inserire strumenti tecnologici che non sacrifichino, come spesso si pensa di cellulari, computer e videogame, gli aspetti relazionali, ma li promuovano.
P2R ci dimostra che questa sfida si può accettare. E sfida a sua volta chi vuole portare le proprie idee e competenze a disposizione di quest’ambito così insolito e così stimolante.
13 Novembre 2016 | Si può fare
Anche in provincia di Cuneo è nata l’opportunità di rinnovare il modo di fare business.
Ping, “Pensare IN Granda, società cooperativa sociale”, si definisce un “Incubatore-Acceleratore”, ed ha come obiettivo quello di promuovere lo sviluppo di progetti, idee, realtà imprenditoriali, in un ambiente che mette al centro l’innovazione, la condivisione e la possibilità di far emergere le potenzialità di ognuno.
Con una sede in Piazza Foro Boario (ex Caserma Cantore), in una zona di Cuneo simbolo della riqualificazione, Ping offre uno spazio di lavoro condiviso, ovvero Coworking, in cui saranno messi a disposizione gli ambienti, gli strumenti e tutto ciò che può fare da “cornice” alla nascita di un progetto o di un’attività professionale. Connessione wifi internet a banda larga e postazioni in cui poter usare il proprio pc, materiale informatico per attività di programmazione, una stampante 3D, sale riunioni, un’area relax. Un “Business Center” in cui diverse realtà avranno la possibilità di incontrarsi, confrontarsi e condividere non solo gli spazi, ma anche le esperienze e le competenze.
Inoltre, nella struttura di Ping è stata data particolare rilevanza a ciò che viene definito “Educational”, ovvero all’aspetto della formazione, con una Sala Conferenze e la possibilità di organizzare eventi che permettano ad ogni realtà di migliorarsi ed acquisire nuove conoscenze e capacità.
1000miglia collaborerà con Ping non solo mostrandovi le opportunità che offre, ma anche raccontandovi delle novità, degli eventi e dei progetti che stanno prendendo forma.
Seguite il sito di Ping www.pingcn.it e la rubrica di 1000miglia “Si può fare”, scoprite cosa succede e come fare per tirar fuori dal cassetto quell’idea che vorreste trasformare in realtà.
7 Ottobre 2016 | Si può fare
“Questa è una domanda molto difficile…”
Quando gli chiedo quali sono i motivi che lo spingono a fare ciò che fa, sorride e si prende qualche secondo per mettere insieme le idee.
Perchè Matteo, 30 anni, da quattro vive e lavora a Cascina Caccia, a San Sebastiano Po (TO). E se ti chiedono cosa ti spinge a vivere e lavorare in un bene confiscato alla mafia, probabilmente la risposta è talmente radicata dentro di te che tu stesso devi andarla a cercare.
La Cascina, che attualmente porta i nomi di Bruno e Carla Caccia, è stata confiscata definitivamente nel 1999, ma è rimasta occupata dalla famiglia ‘ndranghetista dei Belfiore fino al
2007. Dall’anno successivo il bene è stato affidato all’associazione ACMOS (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), in collaborazione con Libera.
“L’idea di vivere a Cascina Caccia è nata dalla volontà di dare un segnale di presenza e partecipazione della società civile, presidiando il bene, che attualmente, dei circa 12mila presenti in Italia, è uno dei pochi ad essere abitati”, mi spiega Matteo, raccontandomi del suo ingresso nell’associazione e nella vita della Cascina.
“Da un po’ di tempo cercavo di avviare un’attività di apicoltura, che a Cascina Caccia era presente ma gestita da un esterno. Così nel 2012 mi sono trasferito qui con la mia ragazza Noemi.”
La produzione di miele è una delle attività nate per “generare economia” in un luogo dalla storia e dal significato così particolari. “Il nostro miele è il primo prodotto del nord Italia ad essere venduto con il marchio Libera Terra (il marchio dei prodotti che nascono nei beni confiscati alle mafie, nda). Attualmente abbiamo anche una coltivazione di noccioli, duecento piante di tonda gentile delle Langhe, e collaboriamo con l’Istituto Alberghiero Beccari di Torino e con aziende produttrici di cioccolato, riso e cosmetici.”
Ma l’attività produttiva in senso stretto è solo uno dei filoni su cui si basa il progetto di Cascina Caccia.
“Un altro aspetto importante è quello dell’educazione alla legalità. Ospitiamo i campi estivi “E!State Liberi” di Libera e, durante l’anno, proponiamo incontri ed attività per le scuole, nei quali si racconta la storia della Cascina e si riflette sulle mafie in diverse sfaccettature, in particolare per quanto riguarda la loro presenza nel nord Italia.”
Matteo mi racconta inoltre degli eventi organizzati in Cascina, dai concerti ai matrimoni, che permettono di sfruttare e dare nuova vita agli splendidi locali che sono a disposizione.
Ma l’aspetto che più mi colpisce del progetto è quello che lui definisce il “filone dell’occasione”: “arrivano da servizi penali esterni ragazzi, soprattutto minorenni, che svolgono da noi le ore di lavoro socialmente utili. Questo fa sì che, in un luogo simbolo del cambiamento e della rinascita, si crei l’opportunità di cambiamento anche nelle persone.”
La parola Cambiamento ricorre spesso nella nostra chiacchierata. Forse, in fondo, è il senso stesso dei percorsi e della vita a Cascina Caccia.
Al di là di un’attività che ti appassiona, quali sono i motivi che ti spingono a partecipare a questo progetto, in modo così pieno e completo?
“Vengo dal mondo dello scoutismo, e quindi dai valori di partecipazione, associazione, volontariato, che ovviamente ritrovo in questo progetto. A dire il vero, però, ho scelto di lasciare lo scoutismo perchè, caratterialmente, faccio fatica a lavorare in gruppo. Vivere qui con altre quattro persone, insieme a coloro che vengono accolti per collaborare al lavoro in cascina, mi spinge a mettermi in gioco da questo punto di vista, perchè ovviamente non si può fare a meno del gioco di squadra. inoltre, mi tiene qui l’idea di partecipare, di mettermi a disposizione per il cambiamento, un cambiamento che non può essere soltanto parole ed ideali, ma ha bisogno di quei fatti che avvengono in silenzio.”
Ringrazio Matteo, ci salutiamo, si spegne la webcam del mio computer. E penso che questi fatti che avvengono piano piano, grazie alla volontà delle persone che ci credono, meriterebbero di uscire, ogni tanto, dal silenzio. E allora, per adesso, metto a disposizione le parole.
7 Giugno 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Facendo distrattamente scorrere il dito sulla bacheca di facebook, inciampo nel link di un articolo. Lo apro e scopro che è la lettera di un papà, che denuncia il cartello affisso in un oratorio salesiano, riferito ad un campo estivo: Possono iscriversi anche allievi di altre scuole, purché “normali” e previo colloquio.
La frase si commenta da sé. Non so se sia più fastidioso l’avverbio Purché, come a sottolineare una condizione sine qua non, un requisito fondamentale, o la parola Normali, usata per descrivere questa irrinunciabile caratteristica. Forse il peggio non sono le parole, ma le virgolette, che sembrano suggerire che sì, non è la parola più corretta da usare, ma insomma, ci siamo capiti, per noi Normali è chiarissimo cosa significhi Non-Normali.
Ma non è solo una questione di a parte parole e punteggiatura, che anzi rischiano di far cadere nel tentativo, goffo e un po’ ipocrita, di nascondere con il linguaggio problemi che la realtà mostra chiaramente.
L’errore di quel cartello è prima di tutto concettuale: l’errore sono i bambini disabili non ammessi ad un campo estivo.
Inutile negare che un bambino con una disabilità può comportare una gestione delle attività, degli spostamenti, dei pasti più complessa. In alcuni casi, la comunicazione e l’integrazione possono risultare difficili. Probabilmente c’è bisogno di più persone, più attenzione, più tempo. Ma questa valutazione non considera alcuni aspetti fondamentali.
Grazie al mio percorso di studi e a quello che spero diventi il mio lavoro, ho avuto la fortuna di conoscere molti splendidi bambini con diverse forme di disabilità. In alcuni casi ho avuto occasione di vederli rapportarsi fratelli, compagni di scuola, amici. Ed è l’averli visti con altri bambini che mi fa pensare che quel cartello sia un limite, ed esprima una valutazione miope e superficiale.
L’inserimento di un bambino con disabilità in una comunità di pari è, innanzitutto, positivo per il bambino stesso. Non solo per la possibilità di confrontarsi e relazionarsi, che non sempre è offerta a questi piccoli al di fuori dell’ambiente scolastico. Hanno bisogno di altri bambini, della loro capacità di notare le differenze per poi passare oltre, mettendo tutti sullo stesso piano. “Non è giusto, tu hai la carrozzina e se andiamo in cortile non ti devi stancare” è stata una delle frasi che ho sentito, una di quelle che ad un adulto non sarebbe mai venuto in mente di pronunciare, probabilmente la più sincera ed inclusiva mai pronunciata.
L’importanza del rapporto con i pari è spesso citata, quando si parla di integrazione di bambini con esigenze speciali. L’aspetto meno considerato è quello per cui il confronto con una situazione di disabilità può essere utile, bello e formativo anche per il gruppo di bambini in cui il disabile viene inserito. Li spinge a notare situazioni diverse da quelle in cui vivono, a prestare attenzione a certi bisogni particolari, insegna loro che in un gioco ognuno può svolgere un ruolo diverso in base alle proprie possibilità e ai propri limiti.
Ciò di cui ci si dimentica, quando si parla di inclusione, è il fatto che essa dev’essere un processo che coinvolge tutte le parti. Finché ci si limita a pensare all’integrazione come ad una proposta terapeutica, quasi ad un favore che la comunità fa al diverso, sia esso una persona con disabilità, uno straniero, persino un nuovo collega sul lavoro, si perderà la componente di opportunità che il gruppo può cogliere.
L’integrazione dovrebbe essere vissuta come un percorso che avviene in entrambi i sensi: la comunità e chi vi si inserisce dovrebbero integrarsi ed accogliersi a vicenda, modificandosi entrambi, come goccia d’inchiostro che si diffonde in un bicchiere d’acqua.
Sfruttando entrambi le possibilità che l’altro offre.