13 Maggio 2017 | Si può fare
“Il 12 settembre 1940 quattro ragazzini di Montignac, in Francia, inseguendo il loro cane smarrito nel bosco, trovarono l’ingresso di una grotta. Vi entrarono per recuperare il cane e scoprirono dei dipinti rupestri. Fu così che regalarono al mondo uno dei più grandi capolavori della storia dell’umanità.”
È con questa breve storia che l’impresa Heritage, nata a Torino nel 2013, ci accoglie nel proprio sito web. Una storia, che parla di scoperte e di regali, di voglia di conservare tutto ciò che la memoria collettiva ha da offrire.
Una storia, perché in fondo, tutta l’umanità è mossa dall’esigenza di raccontare.
Dai dipinti rupestri alle enciclopedie, dai romanzi ai trattati di chimica, dalle immense biblioteche polverose, ai musei, agli archivi infiniti che possiamo comprimere su un hard disk: sono tutti tentativi di lasciare una traccia.
Heritage si basa sul bisogno di conservare le storie che ci raccontano dal passato, valorizzarle e crearne di nuove.
Per questo offre servizi legati principalmente a quattro Concepts.
Smart Cultural Heritage ha l’obiettivo di ampliare ed arricchire le nostre esperienze durante una visita ad un museo, una mostra o un evento culturale. Quanti di voi, camminando per il Louvre, hanno visto la Monna Lisa dal fondo della stanza, magari in punta di piedi per guardare oltre le teste dei visitatori? Proprio per evitare che l’accessibilità delle opere risulti limitata e insoddisfacente, il servizio di Heritage mette a disposizione approfondimenti, dati di contesto e personalizzazioni, che permettano all’utente di godere al meglio della propria esperienza. Gli strumenti di tecnologia mobile applicati al settore della valorizzazione dei Beni Culturali completano l’opera, rendendo il servizio semplice e accessibile.
Il secondo ambito è Heritage Content Management, che lavora allo sviluppo di modelli di esplorazione dei contenuti culturali, che a partire da database conformi agli standard internazionali di documentazione e archiviazione, rendono la fruizione intuitiva e centrata sull’utente. Per evitare, come l’impresa stessa descrive nel proprio sito, che le enormi fonti di dati che si trovano sul web non restino nascoste e inutilizzate, proprio come i vecchi volumi impolverati degli scaffali più alti di una biblioteca.
Il terzo servizio è Cultural Value Proposition, che si basa sul fatto che l’archivio di un’impresa o istituzione, con il suo patrimonio di notizie e documenti, può nascondere testimonianze che meritano una valorizzazione storica e culturale, con la possibilità, tra l’altro, di ottenerne un ricavato economico. “Il patrimonio culturale è la prima comunicazione di un impresa, Ente o Istituzione. Occorre creare un legame affettivo tra il vasto pubblico e l’oggetto”, afferma l’impresa. Per questo realizza strumenti di comunicazione, fruizione e brand marketing, con l’obiettivo di promuovere il patrimonio culturale come motore dell’economia.
Infine, Heritage offre, all’interno della sezione Training, Research & Publishing, opportunità di formazione come master, corsi specialistici e tirocini, attraverso la collaborazione con università, associazioni culturali e fondazioni italiane.
L’impresa è anche una casa editrice: non può mancare, infatti, la possibilità di confrontarsi e comunicare, di creare qualcosa di nuovo, e di offrire contributi a chi opera nei beni culturali.
Se da bambini scriviamo un diario, se teniamo un blog, se sentiamo la necessità di raccontarci in un romanzo o in un post di Facebook, è perché crediamo nel potere della memoria. E se questo vale per ognuno di noi, a maggior ragione è importante riconoscere questo valore a livello universale. E sapere che c’è chi ha deciso di scommettere sui ricordi dell’umanità, creando un’impresa che si occupa di conservarli, è in qualche modo rassicurante.
28 Aprile 2017 | Si può fare
Ricordate l’articolo in cui abbiamo descritto le start up e le invenzioni che vorremmo veder nascere?
Si parlava della possibilità di utilizzare sistemi di realtà aumentata con cui, ad esempio, scrivere messaggi semplicemente pensandoli, o leggerli “in sovra-impressione” rispetto a ciò che vediamo.
Ebbene, ci siamo vicini. Sony sta sviluppando un modello di Smart Contact Lenses: lenti a contatto che non sostituiscono gli occhiali da vista, ma la fotocamera del nostro cellulare. Con esse sarà possibile registrare e riprodurre ciò che vediamo, esattamente come in un video. Le lenti saranno capaci di autoregolare la messa a fuoco, l’esposizione e lo zoom, e potranno essere controllate da un battito di ciglia.
«Sarai presto in grado di registrare e rivivere i momenti più memorabili della tua vita», recita il video pubblicato dalla pagina Facebook Humans of the future.
Effettivamente, la descrizione suona come un tuffo in un film di fantascienza, e questo prodotto, se diventasse d’uso comune, ci porterebbe a vivere in un mondo sempre più simile ad una realtà aumentata. E per certi versi, come ogni cosa nuova, è affascinante.
Ma come si vive in un mondo aumentato? Ne siamo capaci? E soprattutto, ne abbiamo bisogno?
Probabilmente nessuna delle invenzioni che oggi sono scontate sembrava indispensabile quando è nata. Ma un momento “memorabile” è reso tale anche dalla sua unicità e irripetibilità. E, se avere delle foto o dei video sulla memoria dello smartphone ci permette di concretizzare dei ricordi, rappresenta comunque un piccolo frammento dei nostri momenti. E spesso non ci soddisfa del tutto: quante volte avete pensato che la vostra foto non rendesse giustizia al paesaggio che stavate ammirando? C’è il rischio che questo accada anche con delle lenti che riproducono ciò che abbiamo visto come se lo stessimo vivendo di nuovo. Senza considerare il fatto che il nostro sistema nervoso centrale, attraverso meccanismi che non abbiamo ancora compreso appieno, ci presenta a volte, e senza chiederci il permesso, dei déjà-vu: una situazione che spesso sembra poco piacevole.
Inoltre, i nostri ricordi sono costruiti da informazioni sensoriali che arrivano da più canali contemporaneamente: quanto può essere significativo rivivere un tuffo in mare senza avvertire la pelle bagnata, o un incontro con una persona speciale senza il profumo del caffè che abbiamo condiviso?
Ci affascina e ci spaventa, e forse è normale che sia così. D’altronde, mia nonna non ha mai voluto convertirsi alla lavastoviglie.
Ma gli esperimenti proseguono, e probabilmente presto vedremo una realtà aumentata. O potremmo vederla. E quel condizionale fa la differenza: le decisioni spettano agli esseri umani. Che, in ogni caso, da secoli sognano, scrivono, rivivono i momenti speciali, quasi senza poterne fare a meno.
18 Marzo 2017 | Si può fare
(In foto: La scrittrice, artista e career coach Emilie Wapnick, durante il suo Ted Talk di Aprile 2015)
Da un punto di vista biologico, crescere significa specializzarsi, perdere totipotenza per acquisire funzioni specifiche. Mentre cresciamo, nel nostro cervello la ricchezza delle reti neurali diminuisce, per permettere la stabilizzazione delle connessioni utili alle funzioni che sono proprie della nostra specie, necessarie per adattarci all’ambiente. In altre parole, il nostro cervello sceglie di rinunciare ad alcune delle sue potenzialità e ne seleziona altre.
Nel mondo del lavoro e, prima ancora, in quello dell’istruzione, sembra regnare lo stesso principio: ad uno studente o a un lavoratore si chiede di scegliere un indirizzo, un ambito in cui specializzarsi e di cui diventare un esperto. Questa concezione della formazione è basata di fatto sull’idea che ognuno di noi nasce con un talento, con un “mestiere ideale” e che sia solo questione di trovare il proprio.
Questo è vero per alcuni di noi e ovviamente gli “specialisti” sono necessari in moltissime attività. Ma quanti di voi sentono di non combaciare con questa idea di lavoratore? Quanti sono interessati a molte cose, magari completamente diverse tra loro? Quanti non riescono o non vogliono scegliere una tra le proprie passioni, rinunciando alle altre?
In una conferenza TedX di Aprile 2015 la scrittrice, artista e career coach Emilie Wapnick, nel suo intervento Perché alcuni di noi non hanno un’unica vera vocazione, ha descritto il concetto di Multipotenziali, ovvero «quelli tra noi con diversi interessi, diversi lavori nell’arco di una vita e molte potenzialità che si intersecano. (https://www.ted.com/talks/emilie_wapnick_why_some_of_us_don_t_have_one_true_calling?language=it)
È questo il talento dei multipotenziali: la capacità di maturare diverse passioni e, secondo la Wapnick, fare la differenza quando trovano l’intersezione tra esse. Perché coltivare più interessi porta l’acquisizione di abilità trasversali, trasferibili in diverse attività, e richiede una flessibilità, un’apertura mentale che non sempre è facile mantenere quando ci si specializza.
Ed è proprio nella capacità di trovare imprevedibili punti di intersezione che sta la possibilità di innovazione. Emilie Wapnick cita Sha Hwang e Rachel Binx, fondatrici di Meshu, una società che produce gioielli personalizzati, ispirandosi alla geografia. È nata dai punti di contatto degli interessi di Sha e Rachel: cartografia, matematica, visualizzazione di dati e design. Il punto è riuscire a vedere la compatibilità di tutte queste discipline e farne qualcosa di nuovo.
Un altro esempio di multipotenziali nel mondo del lavoro sono le assunzioni dei laureati in filosofia in ambito aziendale: in un’intervista di Repubblica del 2006, Paolo Citterio (Presidente Associazione Direttori Risorse Umane GIDP/HRDA e Amministratore Unico della Citterio&Partners) ha affermato che, nonostante non abbiano competenze tecniche specifiche, i filosofi «si trovano a loro agio in vari contesti aziendali, per la mentalità da sistema, per l’abitudine a ragionare e per l’abilità a correlare i fatti di un insieme di variabili» e quindi sfruttano, di fatto, la loro “multipotenzialità”, le loro competenze trasversali.
Ovviamente, in questo caso come in molti altri, un “multipotenziale” non può lavorare da solo, ma ha bisogno di essere affiancato a specialisti, che introducano competenze tecniche e la loro esperienza in un determinato ambito.
Immaginate un’equipe di lavoro in cui collaborino “multipotenziali”, con la loro flessibilità e capacità di approcciarsi ad un problema da diversi punti di vista, e specialisti, che mettano a disposizione l’approfondimento delle loro competenze, in cui i primi tracciano un percorso, una soluzione creativa che viene arricchita di contenuti dai secondi.
«Esplorate le vostre intersezioni»: Con questa frase la Wapnick conclude il suo intervento, il cui punto principale è stato il fatto che non c’è nulla di sbagliato nel non trovare un’unica vocazione nella vita e che vale sempre la pena di abbracciare una passione, anche se non ci accompagnerà per sempre. Perché ogni tessera del mosaico è un’opportunità e contribuisce alla formazione della persona che lo sta costruendo. E magari permetterà a questo “multipotenziale” di fare della sua stessa ecletticità un lavoro, nonostante tutte le volte in cui si è sentito dire di dover scegliere. A dimostrazione del fatto che portare innovazione, anche nei professionisti, significa accettare che le cose prendano forme nuove e diverse.
26 Febbraio 2017 | Vorrei, quindi scrivo
Cara *,
mi dispiace non poterti chiamare per intero, perché il tuo nome sembra esprimere la sensazione di forza che emani, ma ho l’obbligo di proteggere la tua identità. Come si fa con i supereroi.
Non sei la prima bimba senza capelli che vedo, ma sei la prima che mi sembra perfettamente normale così. E mi chiedo quanto sarai bella quando torneranno, anche se non riesco ad indovinare di che colore sono.
Con i “tle” anni che dichiari tutta orgogliosa, mostrando anche il numero con la mano e con l’aria da grande, sei andata e tornata dall’inferno. Quello vero, non quello in cui un po’ tutti i grandi si sentono ogni tanto. Un inferno con un nome difficile, da cui sei tornata senza capelli e con un paio di gambe diverse da prima. Sei dovuta stare ferma, immobile, e appena hai potuto hai liberato tutta l’energia che hai accumulato e l’hai lasciata esplodere nel nostro ambulatorio.
Hai riso, giocato, giurato di non essere stanca quando noi grandi pensavamo di sì. Ti sei guardata nello specchio sorridendo, come a fare una promessa a te stessa. Hai camminato, tanto, su quelle gambe che ancora non ti reggono come vorresti, ma che non ti fermano, perché tutta la forza che hanno perso si è spostata da qualche altra parte.
Hai imparato a sfruttare tutte le possibilità che i tuoi muscoli e i tuoi nervi ti danno. Sei riuscita ad essere una bimba di tre anni, indipendentemente da tutto il resto. E sei riuscita a farti guardare ammirata, mentre cammini sorridendo in corridoio, da tutti i grandi che forse, forti come te non si sono sentiti mai.
Dici di voler camminare da sola, senza appoggiarti da qualche parte. Dici “ho sognato che corro”, e spezzeresti il cuore di chiunque ti senta.
Ma oggi, mentre eri appoggiata a me, c’era tutta la vita del mondo negli occhi di una bimba senza capelli che non sapeva se tenersi alla mia mano o fidarsi delle sue forze. E ho capito che ci stavamo tenendo a vicenda, io ad aiutare il tuo equilibrio e tu a scuotere i miei occhi da grande, perché perdessero i filtri che mi nascondono tutta questa bellezza. Tutta questa incontenibile voglia di crescere.
Quando mamma ti ha detto di rallentare, hai risposto “tai tanquilla, non cado”, ed eri talmente determinata che abbiamo capito che avevi ragione. Ti sei lamentata quando ti hanno seduta nel passeggino, volevi camminare ancora, non eri stanca. Eppure avevi portato un uragano, in ambulatorio. Come si fa a non essere stanchi, dopo aver portato un uragano tutto da soli.
Forse quell’uragano è solo vita, nella sua forma più autentica e più luminosa, così forte da fare quasi male, così vera che non ci siamo abituati.
Non capita spesso di vedere un uragano che si mostra con tutta questa semplicità e con tutta questa fierezza, in una bimba senza capelli.
Grazie, piccolo Inno alla Vita.
17 Febbraio 2017 | Si può fare
«Vendimi la penna.»
«Mi faresti un favore? Scrivi il tuo nome su quel tovagliolo?»
(The Wolf of Wall Street, M. Scorsese, 2013)
Si dice che per vendere un prodotto si debba creare un bisogno.
Molte delle Start up che nascono in questi anni, che propongono i prodotti più vari, e talvolta più insoliti, si basano su questo principio. Allora oggi, invece di raccontarvi di una nuova idea originale o stravagante, abbiamo deciso di intraprendere il percorso inverso. Partendo dai “bisogni”, dai desideri o dalle curiosità di potenziali consumatori, che ci hanno raccontato “la Start up che vorrebbero”.
Sono emerse risposte fantasiose e al limite della fantascienza, altre all’insegna della praticità, altre ancora che, nella loro semplicità, sono così geniali da chiedersi come abbiamo fatto a non pensarci prima. E infatti, in alcuni casi, qualcuno ci ha già pensato, e le nostre idee, semplicemente, esistono già. Alcuni dei desideri espressi invece, per ora rimangono tali. E allora fatevi avanti, aspiranti startupper: ecco le idee che vorremmo realizzaste per noi.
Mappe per interni
Un navigatore, come quello che utilizziamo per strada, che ci aiuti ad orientarci in spazi chiusi come centri commerciali, musei, ospedali, aeroporti, uffici. A qualcuno sembrerà ovvio, ma ho scoperto che questa è una funzione già presente su Google Maps: cliccando su un edificio è possibile vederne la planimetria, a patto che essa sia stata fornita dai gestori o inserita dagli utenti.
Giocattoli adattati
Avete presente quei giochi per bambini in cui premendo un tasto o tirando una cordicella, succede qualcosa? Si accende una luce, oppure viene riprodotta una canzone, o compare un personaggio nascosto. Sono apparentemente molto semplici, ma per certi bambini, ad esempio affetti da patologie che causano un deficit di forza muscolare, premere quel pulsante può essere molto faticoso, o decisamente impossibile. Perché non semplificare le cose con un sistema touch screen?
Interfaccia grafica in realtà aumentata
Accettando la premessa, affascinante quanto inquietante, di “connettere” un dispositivo tecnologico al nostro cervello, significherebbe vedere ciò che mostra lo schermo del nostro telefono, ma lasciando il cellulare in tasca, come se i messaggi, i video, le foto fossero “in sovraimpressione”. Oppure scrivere un testo o un SMS, semplicemente pensandolo. A voi le considerazioni del caso in termini di possibilità, limiti, potenziali incidenti stradali.
Ali per umani
Le due persone che hanno espresso questo desiderio hanno rispettivamente 21 e 83 anni. A dimostrazione del fatto che l’idea di volare, non su un aereo, volare davvero, come fossimo uccelli, ha un che di poetico a tutte le età. Anche in questo caso non mancano i tentativi di realizzare questo sogno: nel 2010 un moderno Icaro di nome Todd Reichert, ingegnere aeronautico canadese, ha compiuto il primo volo su un ornitoptero, un velivolo ad ali azionato dal movimento delle gambe del pilota. È quindi possibile imitare i volatili, anche se il primo viaggio di questo strumento è stato di soli 145 metri. Al di là dell’aspetto più suggestivo, potrebbe essere utile, ad esempio, nelle operazioni di salvataggio in certi punti del territorio non raggiungibili con mezzi di dimensioni maggiori. Cari inventori, attendiamo notizie.
Teletrasporto
Sì, è ambizioso. Sì, forse è fantascienza. Ma a quanto pare è un sogno di molti degli intervistati, e dunque è d’obbligo citarlo. D’altronde, se cent’anni fa vi avessero detto che nel 2000 avreste potuto parlare direttamente con una persona dall’altra parte del mondo, vedendola su uno schermo, ci avreste creduto?
Se anche voi avete un desiderio che vorreste veder trasformato in una Start up, segnalatelo con un messaggio alla pagina Facebook 1000miglia: potrebbero seguire altri articoli che raccontano delle vostre idee!