Briciole d’acqua

“Briciole” sono quasi sempre qualcosa di insignificante. Ciò che resta sul tavolo, o sul pavimento, dopo mangiato. La parte da buttare via o, al limite, da rifilare a qualcun altro, un contentino per i passerotti. Ma mille briciole fanno un pezzo di pane, e  allora ognuna di esse acquista valore. Miliardi di gocce d’acqua fanno un oceano. Ed è proprio dalla comprensione di quanto ogni goccia può essere preziosa che nascono due idee rivoluzionarie, nella loro semplicità.

«L’acqua non ha forma propria, ma acquisisce la forma del recipiente che la contiene». È una delle prime lezioni di scienze della nostra vita, quando alle elementari ci raccontano della differenza tra liquidi e solidi. Diventa ovvio: i liquidi,come l’acqua, sono qualcosa che ha bisogno di essere contenuto. Di un recipiente che ci permetta di trasportarli, tenerli in borsa, usarli quando ci servono e averli sempre a portata di mano. Tendenzialmente, il recipiente è fatto di materiale inquinante. Si stima che ogni anno si aggiungano ai nostri oceani 8 milioni di tonnellate di plastica. Il conteggio attuale supera i 5 trilioni di pezzi di plastica, e secondo uno studio del World Economic Forum nel 2050 le acque della Terra accoglieranno più pezzi di plastica che pesci. Un pianeta che vive grazie all’acqua, rischia di essere sopraffatto dai contenitori che i suoi abitanti usano per  l’acqua stessa. È davvero un circolo che non si può interrompere?

Per eliminare le bottiglie di plastica, la Skipping Rocks Lab, start-up con sede a Londra, ha pensato di liberare l’acqua dai recipienti, restituendole una forma più naturale: una goccia.

Si tratta di Ooho!, un progetto nato nel 2014, inizialmente pensato a fini sportivi, per permettere ai maratoneti di portare in gara scorte d’acqua senza ingombro. Attualmente, l’idea si sta sviluppando anche con lo scopo di ridurre l’impatto della produzione e dello smaltimento delle bottiglie usate per acqua, bibite e alcolici. Queste gocce sono racchiuse in una pellicola di origine vegetale, realizzata con alghe marine e cloruro di calcio.

La struttura molecolare di questa bolla, che ha una capienza di 250 ml, è simile a quella dei tuorli d’uovo: costruita per contenere un liquido e non permetterne la fuoriuscita. Per questo, il prodotto è semplice e sicuro da trasportare. Inoltre, l’acqua è contenuta in due pellicole: quella esterna, completamente  biodegradabile, viene rimossa, garantendo l’igiene, mentre quella interna deve essere morsa per liberare il suo contenuto.

Queste nuove gocce d’acqua potrebbero portare benefici anche dal punto di vista economico: produrne una, infatti, costa solo 2 centesimi, anche se non è ancora noto il prezzo con cui verranno proposte sul mercato.

Il nome Ooho! nasce per ricordare la parola Eau, “acqua” in francese. I tre ingegneri spagnoli che hanno dato vita a questo progetto sperano, come si legge sul loro sito web, di «creare alternative prive di sprechi a bottiglie, piatti, bicchieri, qualunque-altra-cosa in plastica», e di diventare leader mondiali nella produzione di contenitori a base di alghe». È solo l’inizio, dunque. Se davvero arrivassimo ad utilizzare prodotti usa e getta senza componenti di plastica, cambieremmo non solo il modo di trasportare acqua e cibo, ma  probabilmente anche il nostro modo di rapportarci a questi materiali e al nostro ambiente.

Immaginate di raccontare ai vostri nipotini di quando, per portare in giro l’acqua, c’era bisogno di scomodissime bottiglie, che poi andavano buttate via.

E dove andavano a finire tutte le bottiglie che buttavate via, nonno?…

Le gocce d’acqua per la Skipping Rocks Lab acquistano valore in quanto innovative e rivoluzionarie. Ma le briciole e le gocce possono diventare ancora più preziose, nelle situazioni in cui sono l’unica cosa disponibile. Le stime della Comprehensive Assessment of Water Management in Agriculture delineavano, già dieci anni fa, una situazione critica per quanto riguarda l’accesso all’acqua di buona parte della popolazione mondiale. Attualmente circa 1 miliardo di persone sono colpite da un fenomeno definito “Economical water scarsacity”, ovvero la mancanza di acqua potabile sicura, dal punto di vista qualitativo. Nei casi più gravi, questa condizione si accompagna alla “Physical water scarsacity”, ovvero la mancanza di quantità d’acqua sufficienti per la popolazione.

In moltissime aree dell’Africa sub-sahariana, l’accesso diretto all’acqua è una benedizione rara: per la maggior parte degli abitanti, le fonti disponibili vengono raggiunte dopo ore di cammino, al termine delle quali dei contenitori da circa 20 litri vengono riportati verso casa da donne e bambini, che li trasportano sul capo. Questo comporta una scarsa disponibilità non solo di acqua, ma anche di tempo da investire in istruzione e occupazioni utili.

“Hippo water roller project” è nato dall’idea di due ingegneri africani che hanno proposto, a partire dal 1994, una soluzione semplice, che può fare un’enorme differenza. La “Hippo water roller” è una cisterna che, quando è vuota, può essere trasportata sulle spalle, come uno zaino, mentre una volta riempita rotola, spinta attraverso un manico, fino a casa, riducendo tempo e fatica, e aumentando fino a cinque volte la quantità d’acqua che può essere trasportata in un viaggio.

Questo progetto ha attualmente raggiunto 50 mila persone in 20 Paesi. Un numero che può sembrare, in effetti, briciole. Così come può sembrare una briciola ognuno dei nostri tentativi di migliorare, di sviluppare un’idea innovativa, di risolvere problemi e crisi che sembrano – e sono – più grandi di noi. Ma ognuno di noi è una briciola, una minuscola goccia d’acqua.

«Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni.»

Pirandello, ne Il fu Mattia Pascal, sottolinea questo nostro essere «storie di vermucci». Ma proprio come i personaggi, occorre ricordare che, al di là di questa consapevolezza, «per fortuna, l’uomo si distrae facilmente. […] Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo.»

Ed è in virtù di questa distrazione, che ci fa sentire grandi e importanti, che vale la pena dare significato alle briciole. Alle idee che nascono piccole e insignificanti, a quanto poco è stato fatto rispetto a quanto c’è ancora da fare. Alle gocce d’acqua, quelle innovative ed ecologiche e quelle che semplicemente rappresentano una possibilità di vita, una speranza.

“Briciole” sono quasi sempre qualcosa di insignificante. Ma spesso sono tutto ciò che abbiamo. O almeno, sono ciò da cui possiamo partire, per costruire qualcosa di nuovo. Goccia dopo goccia.

 

 

*Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf

Le voci degli studenti sull’alternanza scuola-lavoro

Parlare di innovazione, come questa rubrica si propone di fare, significa spostarsi nel tempo. Tentare di non perdersi nel presente e nei limiti che oggi sembrano invalicabili, per sforzarsi di immaginare che domani ci sarà una soluzione.
Per parlare di innovazione è necessario porre l’attenzione su chi è, per definizione, proiettato nel futuro. Occorre, e non succede spesso, parlare di scuola e di formazione.
In queste settimane in realtà, gli studenti delle scuole superiori hanno cercato di far parlare di sè. Venerdì 13 ottobre, in molte piazze italiane, hanno manifestato per opporsi all’Alternanza Scuola Lavoro. Introdotta dalla legge 170 del 2015 (“La buona scuola”), questa nuova proposta formativa sta creando una serie di spaccature, soprattutto tra i diretti interessati. Abbiamo fatto loro qualche domanda, per comprendere le motivazioni e le difficoltà che stanno incontrando.
In particolare ci siamo concentrati su coloro per i quali l’alternanza rappresenta la novità più evidente: gli studenti liceali. Non ce ne vogliano gli alunni degli istituti tecnici e professionali: non sono stati intervistati in quanto, nei loro percorsi di studio, i periodi di tirocini e stage formativi sul campo sono previsti da prima del 2015. I loro colleghi liceali, invece, hanno vissuto l’idea di affiancare momenti di lavoro a versioni di latino e integrali come una piccola rivoluzione.
«Già il fatto di doverci prendere ulteriori impegni dopo 9 mesi sui libri per noi è pesante (non frequentiamo certo una scuola leggera) e se poi dobbiamo anche svolgere compiti che assolutamente non c’entrano nulla con il nostro percorso formativo allora il disappunto raddoppia.»
Andrea, al quarto anno del Liceo Classico Maffei di Riva del Garda (Tn), mi ha raccontato della sua esperienza, di fatto molto positiva, e di quella di alcuni compagni, che non sono stati altrettanto fortunati.
«Le testimonianze si sono dimostrate negative sia per le mansioni svolte, sia per l’organizzazione non proprio impeccabile. E nemmeno c’era stata grande chiarezza sui compiti che sarebbero stati svolti.»
Una serie di criticità legate all’organizzazione dell’alternanza e alla difficoltà di conciliare questo percorso con gli impegni scolastici sono emerse anche dalle parole di alcuni studenti del Liceo Peano – Pellico di Cuneo. Anche il fatto che le mansioni affidate agli studenti siano poco attinenti ai percorsi di studio è stato sottolineato.
Di fatto però, i licei sono scuole che non prevedono competenze tecniche, quindi è difficile pensare di organizzare un’alternanza con lavori specifici. “Lavare i piatti non è formazione”, si legge in alcuni dei cartelli delle manifestazioni. «A volte sembra che il nostro lavoro “faccia comodo”», ha ribadito Andrea. E c’è chi obietta che, indipendentemente dalla mansione, un’esperienza lavorativa sia formativa in quanto tale, perché implica una serie di capacità e consapevolezze trasversali e necessarie per qualunque lavoro.
Alcuni degli studenti con cui abbiamo chiacchierato sono d’accordo, e riconoscono la positività di un’esperienza simile, pur facendo notare che l’organizzazione dei periodi lavorativi sembra non essere pensata per agevolarli.
Altri invece, ed è il caso di chi è sceso in piazza venerdì scorso, si oppongono al concetto stesso di alternanza scuola lavoro. In particolare per chi ha scelto una scuola che prevede, nella maggior parte dei casi, di proseguire gli studi dopo il diploma, il mondo del lavoro è forse un orizzonte troppo lontano per vedere un’utilità concreta in questa prima esperienza. In molti suggeriscono che forse, almeno in questa fase del percorso scolastico, sarebbe più costruttivo far “assaggiare” agli studenti alcuni dei lavori a cui potrebbe portarli la scuola che stanno frequentando. In questo modo potrebbero vedere concretamente a cosa stanno andando incontro, e sperimentare sul campo gli argomenti che li appassionano.
Si tratta di una questione complessa, che di certo non può essere risolta in poche righe. Ma forse gli Istituti hanno una possibilità, talvolta sottovalutata, per rendere questo percorso utile e formativo. Tener conto delle impressioni, delle esigenze e delle esperienze degli studenti. Tentando di creare un dialogo in cui abbiano peso le voci dei protagonisti della formazione.

(Con la collaborazione di Simone Arciuolo)

I SEGRETI DELLE MENTI CREATIVE

In un’epoca in cui continuamente nascono imprese, start up e prodotti rivoluzionari, sembra che ognuno di noi possa sfondare con un progetto innovativo. Ma come nascono queste grandi idee?

“Avevo una studentessa di nome Jihae, che venne da me e disse: «Le idee più creative mi vengono quando procrastino.» E io: «Che cosa carina, dove sono i quattro saggi che mi devi consegnare?»”

Lo psicologo americano Adam Grant ha raccontato questo aneddoto durante il suo discorso in una conferenza Ted. Con l’obiettivo di dimostrare il fatto che non sempre chi ha idee originali e fonda imprese di successo è come ce lo immaginiamo.
Durante il discorso e nel suo libro Originals: how non-conformists move the world, l’autore illustra i risultati del suo studio, da cui sono emerse le principali caratteristiche delle persone innovative e creative. E forse non sono quelle che ci si aspetta, ma “a volte è grazie, e non malgrado quelle qualità, che hanno successo”.

Se credete di aver avuto una buona idea, ma di non essere la persona giusta per farla fruttare, forse è il momento di ripensarci.

La prima, appunto, è la tendenza a procrastinare. Gli “Originals”, racconta Grant, sono persone che iniziano in fretta, ma sono lente a finire. Quando abbiamo un’idea o iniziamo un progetto, il fatto di interrompere e rimandare crea una sorta di “incubatrice”. I pensieri restano attivi nel sottofondo della nostra mente, e ci diamo il tempo di valutare opzioni alternative, nuove, e potenzialmente migliori. E non pensiate che questo significhi per forza rischiare di perdere delle occasioni: è dimostrato che le imprese che propongono un prodotto nuovo, mai visto prima, hanno molta più probabilità di fallire rispetto a quelle che introducono un miglioramento di qualcosa che già c’è. Quanti di voi sono iscritti a MySpace, o a Friendster? Sono social network nati prima di Facebook. Eppure.

“Non hai bisogno di essere il primo, devi solo essere diverso, e migliore”. Diamo alle nostre idee il tempo di migliorare.
E diamoci il tempo di criticarle. La seconda caratteristica dei creativi sembra essere proprio il dubbio nei confronti della propria idea, nella sua accezione di spinta al miglioramento e alla ricerca. Durante lo studio dello psicologo è emerso che le persone che usano Firefox e Chrome hanno mediamente più idee originali di quelli che usano Safari o Internet Explorer. Pare assurdo, ma è questione di dubitare delle impostazioni che si trovano di default in un dispositivo, e cercare delle soluzioni alternative.
E se si può fare con il browser del computer, perché non con i propri progetti?

Dubitare, mettersi in discussione, ma mai sentirsi al capolinea. Il terzo aspetto che accomuna gli “Originals” sono i numerosi tentativi falliti. Statisticamente, in effetti, più carte si giocano, più è probabile che ce ne sia una vincente. Questa regola non vale sempre, ma sembra funzionare nel caso delle idee innovative.

Grant cita Thomas Edison e la lampadina, la sua rivoluzionaria invenzione nata dopo una serie infinita di pessime idee. “I più grandi creativi sono quelli che falliscono di più perché, in effetti, sono quelli che tentano di più.”

Se credete di aver avuto una buona idea, ma di non essere la persona giusta per farla fruttare, forse è il momento di ripensarci. Di smettere di ascoltare chi vi dice che studiando 200 pagine negli ultimi due giorni prima dell’esame non imparerete mai. O che non decidervi e modificare ancora quel progetto non vi porterà mai ad una conclusione. O che dopo tutti quei fallimenti, è ora di mollare. Mostrate loro questo video, e date spazio e tempo alla vostra originalità.

LA REALTÀ STAMPATA IN 3D

L’invenzione della stampa risale, se si tengono in considerazione i metodi per la decorazione di tessuti, al II o III secolo d.C. Si hanno invece notizie della prima riproduzione di un testo su carta tra i reperti della dinastia cinese Tang, tra l’VIII e il IX secolo.
Da quel momento in poi, l’evoluzione della stampa ha accompagnato i secoli, passando da macchine a caratteri mobili e motori a vapore, fino ad arrivare alle cartucce a getto d’inchiostro e agli apparecchi laser. E fino all’avvento delle stampanti 3D, inizialmente sperimentate negli anni ‘80.
Il meccanismo più diffuso per “stampare volume” è detto produzione additiva: gli oggetti vengono creati sovrapponendo strati successivi di materiale, solitamente polveri metalliche, sostanze termoplastiche o filamenti plastici o metallici che vengono “srotolati” durante la stampa.
Inizialmente, l’ambito di impiego delle stampanti 3D è stato quello industriale. Questi strumenti possono infatti essere utilizzati per la realizzazione di prototipi in modo relativamente rapido e poco costoso. Immaginate ad esempio di poter stampare le componenti di un motore e di analizzarle, invece di osservarne la versione digitale al pc.
Negli ultimi anni però, la stampa 3D non è più un’esclusiva delle grandi aziende, ma è approdata in altri ambiti imprenditoriali, nel mondo sanitario e sociale, ed è utilizzata perfino a livello domestico. Può essere sfruttata per produrre qualunque tipo di oggetto (compatibilmente con le dimensioni della stampante), e il materiale stampato è fedele al progetto originale al decimo di millimetro, una qualità più che sufficiente per la maggior parte delle applicazioni.
E quindi ecco nascere decine di progetti basati su questa possibilità. La stilista olandese Iris van Harpen ha realizzato una collezione di abiti interamente realizzati con una stampante 3D. La Barilla prevede di sostituire con questo strumento le vecchie macchine per la pasta, tra l’entusiasmo di chi crede nell’innovazione e lo scetticismo di tutte le nonne d’Italia. Lo scorso anno i file di “Liberator”, una vera e propria pistola fai-da-te, sono stati diffusi in rete e scaricati da migliaia di persone in poche ore.
Oltre alle applicazioni in ambito artistico, dell’industria, della moda, la stampa 3D ha stuzzicato la fantasia del mondo della medicina, in cui si sogna di poter un giorno ottenere tessuti e organi da impiantare su pazienti per cui non ci sia la possibilità di utilizzare le tecniche tradizionali.
Sul nostro territorio, l’ “Incubatore-Acceleratore” di idee Ping (“Pensare in Granda”) mette a disposizione, in un contesto di Coworking (spazi di lavoro condivisi per la realizzazione di progetti e start up), una stampante 3D proprio nel centro di Cuneo.
Per darvi un’ispirazione rispetto ai modi in cui potete approfittarne, ecco alcune idee nate dalla possibilità di stampare in 3D.

Dal 18 al 24 Dicembre, a Lecce si è tenuta la mostra fotografica “Tu mi vedi?”. I soggetti raffigurati sono uomini e donne di tutte le età, ciechi e ipovedenti, fotografati in primo piano, con l’obiettivo di sfatare il cliché degli occhiali neri usati per nascondere lo sguardo. La mostra è aperta anche a persone con disabilità visiva, grazie alle opere realizzate proprio con una stampante 3D. Così, grazie all’idea del fotografo Silvio Bursomanno, gli stessi protagonisti della mostra potranno apprezzarla attraverso una restituzione tattile.

Open BioMedical Initiative (OBM) è un’associazione italiana, nata nel 2014 dall’idea di rendere più accessibili costosi strumenti biomedici. Come? Progettando modelli che si possano riprodurre con una stampante 3D.
Attualmente sono sul mercato tre prodotti. Il primo è WIL (Wired Limb), una protesi meccanica per la mano: viene azionata dai movimenti del polso del paziente, tramite un sistema di tiranti. È composta da materiali che sono a basso costo e facilmente reperibili, e tutte le sue parti possono essere stampate in tre dimensioni. Inoltre, nell’ottica di rendere questo ausilio il più possibile alla portata di tutti, tutta la documentazione necessaria è consultabile online.
Un altro tipo di protesi offerto dall’associazione è destinata a pazienti con malformazioni congenite o che hanno subito amputazioni. Si tratta di FABLE (Fingers Activated By Low-cost Electronics), una protesi elettromeccanica per l’arto superiore: gli impulsi mioelettrici prodotti dalla contrazione dei muscoli del gomito permettono di azionare l’ “arto meccanico”, e di ottenere anche i più precisi movimenti delle dita. Una protesi tecnologicamente avanzata e riproducibile ovunque, ancora attraverso lo strumento della stampa 3D.
Infine, OBM propone BOB (Baby On Board), un’incubatrice attrezzata per cure neonatali intensive. Anche in questo caso le carte vincenti sono i costi contenuti, le istruzioni di realizzazione consultabili on line e la possibilità di stampare tutte le parti che la compongono.
«Sappiamo di produrre dei prodotti che non sono al pari di quelli che costano dieci volte di più», ha dichiarato Bruno Lenzi, ingegnere tra i fondatori di OBM, nell’intervista di Ottobre 2015 a Start Up Italia. «C’è chi può permettersi la protesi da decine di migliaia di euro e c’è chi non può permettersela, la differenza è poter dare questa scelta. Una protesi tecnicamente inferiore, certamente, ma funzionale e, soprattutto, accessibile. Vogliamo dare gratuitamente un servizio a tutte quelle persone che non possono permettersi alcuna tecnologia».

Pembient è una start up californiana che ha visto nello strumento della stampa 3D un’opportunità di salvare alcune specie animali in via di estinzione. Sta infatti mettendo a punto la stampa di alcuni corni di rinoceronti, con l’obiettivo di lanciarli sul mercato per fare concorrenza a quelli derivati dalla caccia di questi animali. I primi corni sono prototipi di pochi centimetri, ma l’intuizione da cui sono nati può rivoluzionare il commercio e il destino di specie come rinoceronti ed elefanti.
A detta della start up, i corni sono stampati attraverso un programma basato sul codice genetico dei rinoceronti, e composti da cheratina, lo stesso materiale di quelli naturali. I corni stampati nel laboratorio Pembient sono quindi biologicamente identici a quelli che provengono dagli animali, e possono sostituirli per gli scopi per cui sono ricercati.
Oltre all’obiettivo ecologista che persegue, questa start up mostra la possibilità di intersecare le istruzioni di una macchina a quelle scritte nel codice genetico di un essere vivente. Se da un lato può spaventare, dall’altro apre sicuramente ad una serie di applicazioni che potrebbero, in un futuro non così lontano, rivoluzionare il mondo della medicina e il modo in cui ci curiamo.
La stampa 3D è stata commentata praticamente in ogni modo possibile. È stato detto che è un’invenzione geniale, una rivoluzione, e anche che l’umanità avrebbe potuto farne a meno. È stato detto che è la naturale evoluzione della stampa in due dimensioni, ma anche che rischia di stimolare la tendenza dell’uomo al “playing God”, a “giocare a fare Dio”. Probabilmente, come per ogni novità che ci è presentata, è troppo presto per trarre delle conclusioni.
È stata lanciata la provocazione secondo cui basta comprare una stampante 3D per creare una start up e avere successo. Ovviamente, questo strumento non stampa le idee, la voglia di mettersi in gioco, le porte in faccia che vanno sopportate. Ma fornisce un’opportunità che, unita alla vostra voglia di creare, può fare la differenza.

IO STO NEL MONDO: QUANDO TI ACCORGI CHE SI PUO’ FARE

Lo scriviamo da mesi, che SI può fare. Raccontiamo di start up, realtà imprenditoriali, persone che credono in un’idea e si dedicano ad essa fino a trasformarla in qualcosa di concreto.

Lo scriviamo da mesi. Lo abbiamo scritto fino a quando abbiamo iniziato a crederci.

E oggi, uno dei tanti lunedì mattina dal risveglio difficile, torniamo alla vita reale dopo un weekend  in cui Si può fare è diventato il nostro primo pensiero.

A Cuneo, Piazza Foro Boario e i locali di Ping sono stati il teatro di Io Sto nel Mondo, il terzo evento di 1000miglia. Che è iniziato venerdì sera sotto una pioggia quasi surreale, e il concerto di Cecco e Cipo che all’ultimo secondo si è sposato all’interno del Baladin, e si è concluso sabato pomeriggio, con un sole che ci ha scottati tutti e che ha reso quasi invisibile lo schermo dello spettacolo Parole Note.

Tra questi due momenti, per noi è stato un alternarsi di stanchezza, emozione, ansia e poesia. E speriamo che per voi sia stato semplicemente un bel modo di stare nel mondo.

E allora in questo spazio non voglio raccontarvi di un’altra start up. Perché in questo lunedì mattina, credo di dovere soprattutto dei Grazie.

Ai miei compagni di viaggio, innanzitutto, a chi ha curato l’evento da quando era solo un’idea fino a quando si è trattato di spostare sedie, giornali e strumenti musicali, a chi ha scritto, corretto, impaginato il numero 9 della rivista, a chi in questi due giorni ha ripetuto che Si può fare.

Agli ospiti e al pubblico, ovviamente, per aver reso possibili interventi pieni di idee e di vita.

Alla cooperativa sociale Ping, per averci ospitato nei loro locali (o più precisamente, per averci permesso di colonizzarli). Abbiamo trovato, oltre ad ambienti splendidi, una disponibilità e una voglia di credere in progetti come il nostro fuori dal comune.

Sarebbe necessario ringraziare ancora un centinaio di persone, perché ognuna di esse ci ha permesso di continuare a credere che, davvero, Si può fare.

E perché forse è questo il senso di questa rubrica. Raccontare le storie di chi ci crede e lo dimostra concretamente, e parlare di chi, come Ping, offre degli strumenti per farlo. Tutto per accendere in persone nuove, com’è successo in noi, quel desiderio di rendere concreta un’idea, e per vederla nascere.

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