18 Aprile 2024 | Segnalibro
Ogni giorno, per un mese intero, Chiara si impegna in una nuova attività per soli dieci minuti. È un modo per sfidare se stessa, uscire dalla sua zona di comfort e reinventare la sua vita dopo aver perso tutto ciò che le era familiare: il compagno, la casa d’infanzia, il lavoro. Senza nulla da perdere, si getta in questa impresa. Dieci minuti al giorno per esplorare nuove attività: smalto fucsia, cucinare pancake nonostante la sua inesperienza ai fornelli, ballare hip-hop, parlare e ascoltare profondamente sua madre. Queste esperienze la introducono a nuove realtà e la spingono a prendere decisioni sorprendenti. Dieci minuti bastano per aprire le porte a un mondo inaspettato, verso una rinascita.
La protagonista di questo romanzo si chiama Chiara e fa la scrittrice. Potrebbe essere un’autobiografia? La risposta arriva dall’autrice stessa, che riconosce le somiglianze definendo il suo libro un esperimento di autofiction, genere in cui l’autore stesso è il protagonista delle vicende narrate, prendendo spunto dalla realtà per creare una storia di fantasia. L’autrice racconta come, in un momento di smarrimento, un’amica le suggerì di fare un gioco: provare per un mese, una volta al giorno, qualcosa di mai tentato prima. “È come avviare un dialogo con parti di te che pensavi inesistenti o trascurate”, spiega Chiara, la persona reale. “Quando subiamo una perdita nella vita, all’inizio c’è il dolore acuto, ma poi ci riprendiamo perché l’essere umano è più resistente di quanto creda. Questo gioco ti ricorda che hai infinite possibilità”, continua l’autrice. “Se ricominci a flirtare con la vita con un po’ di fantasia, lei ricambierà”.
Il percorso inizia il 3 dicembre e termina il 3 gennaio. La forma di diario, con data e ora, trasmette un senso di tempo oppressivo. Quando si sta male, il tempo diventa un nemico e i giorni sembrano non passare mai.
“Per dieci minuti” è un libro breve, meno di 200 pagine, capitoli scorrevoli. Un pomeriggio di lettura basta per terminarlo. Il tema fondamentale del cambiamento e della rinascita viene narrato con maestria, dimostrando che è possibile ritrovare la gioia di vivere un passo alla volta.
15 Febbraio 2024 | Vorrei, quindi scrivo
Il senato ha da poco approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario. Il provvedimento deve passare ora alla camera dei deputati prima di diventare legge definitiva. Ma che cos’è esattamente l’autonomia differenziata e quali sono le sue implicazioni?
L’autonomia differenziata rappresenta una modifica legislativa introdotta nel 2001, che ha portato ad una riforma del titolo V della Costituzione italiana. Questa modifica ha apportato significative revisioni all’articolo 117 della Costituzione delineando 17 materie di competenza esclusiva dello Stato, tra cui politica estera, difesa, giurisdizione e norme generali sull’istruzione. Le regioni sono invece responsabili di tutti i settori normativi non espressamente attribuiti allo Stato.
L’art. 116 della Costituzione consente alle regioni ordinarie di richiedere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Tutto ciò però fino ad oggi non è mai stato attuato sicché le regioni hanno avuto un’autonomia normativa sostanzialmente limitata.
L’attuale introduzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia differenziata, proprio come previsto dall’art.116 della costituzione, avviene oggi tramite una legge ordinaria rinforzata. Questo tipo di legge richiede un processo legislativo specifico: deve essere approvata da entrambe le camere del parlamento con la maggioranza assoluta dei loro componenti.
Il disegno di legge Calderoli, proposto dal Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli, stabilisce le procedure legislative e amministrative per attuare l’autonomia differenziata.
Le regioni italiane, attraverso un processo di negoziazione con lo Stato avrebbero la possibilità di richiedere l’attribuzione di 23 diverse materie di competenza, tra cui salute, istruzione, ambiente, trasporti, cultura e commercio estero. Non vi è un numero minimo di materie che una regione può richiedere, garantendo così una flessibilità in base alle esigenze specifiche di ciascuna regione.
Tuttavia, il trasferimento di funzioni dalle competenze statali a quelle regionali avverrebbe solo dopo una conferenza tra lo Stato e le regioni e, soprattutto, dopo la determinazione dei “Livelli Essenziali delle Prestazioni” (LEP). Questo processo assicura che il trasferimento di competenze avvenga in modo responsabile e sostenibile, garantendo alle regioni le risorse necessarie per gestire efficacemente le nuove aree di competenza.
I Livelli Essenziali di Prestazioni rappresentano un elemento fondamentale nella concessione di maggiori forme di autonomia alle regioni, definendo il livello minimo di servizi che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio italiano, indipendentemente dalle specifiche competenze trasferite. Essi stabiliscono le condizioni basiche che ogni regione deve rispettare per assicurare ai cittadini un livello di servizio adeguato e omogeneo.
Tuttavia, l’autonomia differenziata non è priva di controversie. Uno dei grandi terreni di scontro è quello delle tasse. Con l’autonomia differenziata le tasse di chi paga nella propria regione di residenza rimarrebbero in quella regione e non sarebbero ridistribuite a livello nazionale. Per alcuni questa è una cosa positiva perché le regioni non dovrebbero più condividere le proprie risorse con le altre, secondo altri è una cosa negativa perché i lavoratori fuorisede pagherebbero le tasse nella Regione di residenza e non in quella in cui usufruiscono dei servizi.
Chi sostiene l’autonomia differenziata pensa che la gestione delle risorse a livello locale potrebbe ridurre gli sprechi, in quanto chi è più a contatto con il territorio può conoscere meglio le esigenze del territorio stesso, e che questo abbia un effetto positivo a cascata su tutto il paese. Inoltre sarebbe più facile per i cittadini controllare l’operato dei politici.
Chi è contro sostiene che le risorse delle regioni più ricche non verrebbero ridistribuite a livello statale e che quindi verrebbero lasciate meno risorse alle regioni considerate più fragili. Inoltre si sottolinea come si abbia già sperimentano in parte l’autonomia differenziata nella sanità il cui risultato è stato una grande disparità tra nord e sud.
In conclusione, l’autonomia differenziata rappresenta una sfida significativa per il sistema politico italiano, poiché cerca di bilanciare la decentralizzazione del potere con l’unità nazionale, promettendo maggiore efficienza e responsabilità a livello regionale, ma sollevando al contempo importanti interrogativi sull’equità e sulla coesione del Paese.
9 Novembre 2023 | Frammenti di storia
All’alba di sabato 7 ottobre un’offensiva via terra, aria e mare è partita dalla striscia di Gaza contro lo stato ebraico. E’ l’inizio di una guerra. Ma come siamo arrivati fin qui? Dove e quando nasce la tensione tra Palestina e Israele?
Per capire l’origine del conflitto israelo-palestinese bisogna andare indietro alla fine del XIX sec. quando, sulla spinta dei nazionalismi europei e in risposta all’acuirsi dell’antisemitismo, il giornalista austriaco Theodor Hertz elaborò l’ideologia del sionismo, movimento politico che rivendicava l’autodeterminazione del popolo ebraico ipotizzando la Palestina e l’Argentina come possibili destinazioni per l’insediamento dei coloni.
Fu la connessione culturale con Gerusalemme che spinse il movimento sionista ad optare per la Palestina, all’epoca definita come l’area geografica delimitata ad ovest dal Mar Mediterraneo e a est dal fiume Giordano. Anche se la migrazione di ebrei europei verso questo territorio era cominciata già alla fine dell’ottocento, il fenomeno divenne più consistente con la fine della prima guerra mondiale dopo che gli inglesi riuscirono a sottrarlo all’Impero Ottomano.
Le rivendicazioni del movimento sionista trassero forza dalla dichiarazione Balfour, una lettera che nel 1917 il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour scrisse a Lord Lionel Walter Rothschild, sionista e membro di spicco della comunità ebraica inglese, nella quale il governo di sua maestà affermava il suo supporto alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina. Alla fine del conflitto i paesi vincitori si spartirono le province arabe dell’Impero Ottomano alla conferenza di Sanremo del 1920. Il territorio della Palestina insieme a quello dell’attuale Iraq e Giordania furono affidati alla Gran Bretagna, mentre Siria e Libano passarono sotto il controllo della Francia.
La presenza di Londra e Parigi fu poi istituzionalizzata dalla società delle nazioni, nucleo di quelle che saranno le Nazioni Unite con la creazione dei mandati. Si trattava di un sistema in cui le potenze coloniali si impegnavano ad amministrare questi territori e accompagnarli nel percorso verso l’indipendenza. Il conferimento del mandato della Palestina alla Gran Bretagna, potenza che aveva dichiarato pubblicamente di voler facilitare l’immigrazione degli ebrei europei in quel territorio, fu mal accolta dalla popolazione locale. Gli anni del mandato furono segnati dallo scoppio di regolari moti di protesta spesso caratterizzati da episodi di violenza contro gli inglesi e la comunità ebraica. L’affluire continuo di nuovi migranti cambiò l’assetto demografico della Palestina.
Dopo il secondo conflitto mondiale Londra decise di rimettere il mandato alle Nazioni Unite che intanto avevano sostituito la società delle nazioni e di lasciare loro la decisione sul futuro della regione.
Nel novembre del 1947 l’assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181 che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico, e che affidava a Gerusalemme una giurisdizione internazionale. Questa soluzione fu accolta positivamente dalla comunità ebraica ma rigettata da quella araba che dopo essersi opposta per anni all’immigrazione di massa degli ebrei europei, rifiutava la possibilità che questi ottenessero uno stato indipendente. A quel punto le relazioni tra ebrei e arabi degenerarono, sfociando prima in guerriglia e poi, con la fine del mandato e la partenza degli inglesi, in un vero conflitto armato. Il 15 maggio 1948 a seguito della dichiarazione d’indipendenza dello stato di Israele gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq decisero di attaccare dando via alla prima guerra arabo-israeliana.
Al termine del conflitto, che si risolse nel 1949 con la sconfitta degli eserciti arabi, i confini del neonato stato di Israele comprendevano il 78% del territorio della Palestina mandataria. Rimanevano fuori dal suo controllo la Cisgiordania e la cosiddetta striscia di Gaza occupata rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto. Durante il conflitto circa 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case in parte per paura della guerra e in parte perché minacciate dall’esercito israeliano.
Nei tre decenni successivi i rapporti tra Israele e gli stati arabi rimasero conflittuali e seguirono altre guerre, la più importante di queste è sicuramente quella del 1967 ribattezzata guerra dei sei giorni. Nell’arco di meno di una settimana l’esercito israeliano riuscì a sconfiggere quelli dell’Egitto, Giordania e Siria. Questa vittoria permise a Israele di occupare nuovi territori: la striscia di Gaza e la Cisgiordania, inclusa quella parte di Gerusalemme, la parte ad est, che era stata controllata fino ad allora dai Giordani. La sconfitta degli eserciti arabi spinse i Palestinesi verso un maggiore attivismo politico.
Tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘80 si assistette all’ascesa di gruppi e partiti palestinesi, che con mezzi politici e militari, cercavano di dare risposta alle proprie aspirazioni nazionali. Negli anni ‘60 la maggior parte di questi gruppi confluì nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una struttura che voleva rappresentare un cappello politico per partiti e gruppi armati palestinesi attivi nei territori e nella diaspora. L’OLP divenne il principale megafono delle istanze palestinesi nel mondo. Nel 1982 i quadri dell’organizzazione furono costretti ad abbandonare il Libano, una delle principali destinazioni per i profughi palestinesi che sarà dilaniato dalla guerra civile proprio in quel decennio. L’OLP trovò asilo in Tunisia ma questa era troppo distante dai territori su cui operava e ciò segnò il declino dell’organizzazione.
Esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie aspirazioni nazionali nel 1987 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania iniziarono una serie di proteste contro l’occupazione israeliana. Questi atti assunsero ben presto la forma di una vera e propria sollevazione popolare, la prima intifada, che si protrasse fino al 1993 e che portò la morte a più di 1900 palestinesi e 200 israeliani.
In questi anni di scontri nacque il movimento della resistenza islamica Hamas, acronimo di “movimento di resistenza islamica”. E’ un’organizzazione politica e militare nata da una costola della fratellanza musulmana, una delle più importanti organizzazioni terroristiche islamiche. E’ negli anni dell’intifada che le posizioni della leadership palestinese e israeliana si avvicinarono per la prima volta. Tra il 1993 e il 1995 vennero siglati gli accordi di Oslo che sulla base della soluzione a due stati avrebbero dovuto rappresentare il primo passo verso la costruzione di uno stato palestinese indipendente. Con questi accordi si divide il territorio palestinese in tre aeree e si crea un’amministrazione autonoma: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
L’ascesa al governo di Netanyahu finì per bloccare i negoziati sulle questioni lasciate aperte dagli accordi e di conseguenza assestare un duro colpo al processo di pace. Nel 2000 scoppiò la seconda intifada, molto più violenta della prima, che portò alla morte di quasi 5000 palestinesi e più di 1000 israeliani. Nel 2002, nel pieno della sollevazione popolare palestinese, Israele cominciò la costruzione di un muro di separazione tra i propri territori e quelli palestinesi in Cisgiordania. L’obiettivo dichiarato era quello di controllare gli spostamenti per evitare attacchi terroristici. Il tracciato del muro però non rispettava la linea verde stabilita nel 1949, discostandosi in alcuni casi di decine di chilometri. Da allora la situazione nei territori palestinesi non ha fatto che peggiorare. Israele continua a mantenere una consistente presenza militare in Cisgiordania dove negli ultimi venti anni ha anche accelerato la sua politica di espansione delle colonie, città e insediamenti israeliani in territori palestinesi ritenuti illegali dalle comunità nazionali.
Rimane da approfondire la striscia di Gaza. Dal 1967 al 2005 anche questa zona è stata occupata militarmente da Israele. Dopo il ritiro israeliano, nel 2007, Hamas ha preso il controllo della striscia e da allora Israele ha continuato a operare un blocco, la chiusura quasi totale dei valichi di frontiere e degli accessi via mare e aerea.
Oggi a Gaza l’80% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari e il tasso di disoccupazione sfiora il 50%.
13 Marzo 2023 | Vorrei, quindi scrivo
“Quante volte al giorno ci giustifichiamo con la frase non ho tempo”. Così introduce il tema della noia e della creatività Maura Gancitano in un video sul canale TEDx Talks (Technology Entertainment Design). La scrittrice, filosofa e fondatrice di Tlon, casa editrice e progetto di divulgazione, con il piglio critico e persuasivo che la contraddistingue ci pone questo interrogativo. La risposta è tante, tante volte. Dobbiamo sempre sbrigarci, fare di fretta. Scappiamo dalla noia, dallo stallo, inseguiti dalla paura di perdere tempo e viviamo pensando che questo sia l’unica cosa che abbiamo, che debba essere ottimizzato, ma così facendo lo disperdiamo.
Il tempo vuoto non è mai tempo perso, è il modo per far sì che possa emergere ciò che nella vita attiva non trova il suo spazio. “Poniamo l’attenzione sull’espressione mi è venuta un’idea”, dice Maura Gancitano, “ E’ come se venisse da lontano, come se arrivasse da un altro luogo. Ci sentiamo spesso senza idee ma questo perché non diamo loro il modo di esprimersi”. Il più grande ostacolo all’innovazione, alla creatività consiste nell’incapacità di guardare con occhi nuovi ciò che è ordinario, ciò che già pensiamo di conoscere. Eppure in tutto c’è qualcosa di inesplorato. Anche la cosa apparentemente più insignificante contiene un po’ di ignoto, ma non lo percepiamo, o meglio, non ci diamo neanche il tempo di farlo. Il problema non sta nella cosa in sé, non è lei che ha perso potere di attrazione, ma nel nostro sguardo. I social network propongono di salvarci tenendoci in una condizione di perenne intrattenimento, ma che, in realtà, è una costante distrazione. E così ci ritroviamo in coda alla cassa del supermercato ad aprire Instagram e a scrollare video su TikTok aspettando che arrivi il pullman.
Flaubert fu l’insegnante di Maupassant :più che trasmettergli una tecnica o il proprio stile volle passargli l’importanza di coltivare l’attenzione. L’allievo doveva mettersi davanti ad un albero per ore, osservarlo come se non ne avesse mai visto uno. Ma questo non è solo un esercizio di scrittura, è un modo per disfarsi del “è così” e aprirsi al nuovo. Flaubert sosteneva che per poter descrivere qualcosa, la si dovesse guardare tanto a lungo e con tanta attenzione. Ma per far ciò ci vuole tempo. Per farlo dobbiamo annoiarci, annoiarci un sacco. La noia ci permette di capire come stiamo davvero e forse è per questo che ne abbiamo paura.
“Una certa capacità di sopportare la noia è indispensabile per una vita felice. Tutti i grandi libri hanno dei capitoli noiosi, e tutte le grandi vite hanno avuto dei periodi non interessanti”, scrisse Bertrand Russell, e direi che ci ha preso.
Proviamo ad annoiarci un po’ di più ogni tanto, forse così una bella idea, o una nuova consapevolezza, troverà la sua strada per raggiungerci.