Da sempre siamo portati a pensare che il comportamento obbediente sia quello più conforme alla vita associata, considerando invece la disobbedienza il capriccio egoistico di chi non accetta l’esistenza di regole che limitino la sua libertà al fine di garantire la pace e il benessere sociale. La storia, però, è come sempre testimone sia della regola sia dell’eccezione che la conferma.
È da poco trascorso il 25 aprile, data che ricorda la liberazione dell’Italia dal regime nazi-fascista, liberazione avvenuta grazie ai partigiani, i “disobbedienti” per eccellenza. Abituati a considerare la libertà di parola, di pensiero e di stampa come un dato di fatto, consegnatoci pronto all’uso da un passato che ci sembra lontano e irripetibile, perdiamo di vista come, in realtà, quel passato oppressivo sia ancora la condizione presente in molte parti del mondo.
La domanda sorge spontanea: se il potere a cui si è sottomessi è ingiusto, non sarebbe meglio disobbedire? E se sì, perché nessuno lo fa? Questo paradosso numerico per cui non si riesce a spiegare come tanta gente non si ribelli al potere illimitato di uno solo è presentato in maniera molto forte da Étienne de la Boétie con il concetto di «servitù volontaria». Sono i dominati i responsabili della propria condizione di sottomissione, poiché scelgono l’obbedienza e la deresponsabilizzazione che essa porta con sé, dimenticando la propria libertà naturale e rinunciando ad opporsi ad un potere che potrebbero facilmente annientare semplicemente smettendo di obbedire.
Fin dove è accettabile che si spinga l’obbedienza? E fino a che punto essa coincide con la giustizia? Il suo lato oscuro è venuto fuori in maniera particolare con i totalitarismi e i genocidi del XX secolo: esso è stato determinato proprio dallo scollamento tra azione e responsabilità che ha dato origine a figure come l’Adolf Eichmann descritto da Hannah Arendt, il mostro di obbedienza incarnato dal funzionario zelante. La complessa burocratizzazione e gerarchizzazione del Reich, infatti, è stata capace di produrre una completa deresponsabilizzazione del singolo all’interno di una colpevolezza generalizzata e frazionata in compiti e mansioni specifiche, in cui chi agisce si considera attore, ma non autore di azioni che gli vengono imposte dall’alto. Il responsabile del trasporto degli ebrei nel frangente del loro sterminio ad opera dei nazisti, Eichmann appunto, si giustificò, nel corso del processo di Gerusalemme a suo carico, dicendo di non aver fatto altro che eseguire gli ordini: con i processi ai gerarchi nazisti, forse per la prima volta, si è punito qualcuno non per aver disobbedito, bensì per aver obbedito.
Questo porterà anche la psicologia ad interrogarsi sul tema dell’obbedienza, e nel 1961 Stanley Milgram avanzerà un esperimento di psicologia sociale che metterà in luce come ciò che paralizza la disobbedienza tra gli uomini sia l’autorità, che, pronunciando ordini apparentemente legittimi, sembra assumersi tutta la responsabilità ed avere il controllo totale delle azioni altrui. L’obbedienza cieca non è però l’unica risposta possibile di fronte ad una situazione di palese ingiustizia: ad esempio Henry David Thoureau incarna la disobbedienza civile, riscoprendosi come individuo insostituibile e mettendo da parte il proprio essere cittadino, mero ingranaggio facilmente sostituibile della macchina statale, ponendo il rispetto della propria morale interiore al di sopra di qualunque legge.
Non sempre, dunque, l’obbedienza corrisponde alla giustizia e la disobbedienza al suo opposto: per quanto l’obbedienza permetta l’ingresso in un regime di deresponsabilizzazione, è usuale credere che l’irresponsabilità derivi dalla disobbedienza. Ma la responsabilità è un processo di soggettivizzazione, in cui l’individuo si assume il carico del proprio fardello, fardello che spesso lo porta a ricercare il sollievo della delega proprio nell’obbedienza. Laddove Eichmann si è fatto autore di azioni abominevoli in nome di un’obbedienza cieca ad ordini di un regime tanto forte quanto disumano, è stata invece l’opposizione partigiana a liberare l’Italia da una dittatura fondata sul meccanico consenso a norme la cui giustizia non è mai stata messa sufficientemente in dubbio.
Questa riflessione, però, non vuole essere una giustificazione della disobbedienza in toto, poiché, come l’obbedienza, anch’essa può rivelare un lato oscuro, quello dell’egoismo mascherato da rivoluzione, che, invece di garantire una libertà generalizzata, impone semplicemente un nuovo ordine autocratico. Obbedienza e disobbedienza sono dunque, in realtà, l’una la naturale evoluzione dell’altra, e la libertà e la giustizia alla base della società sono in pericolo sia di fronte alla durezza della sottomissione portata all’estremo dell’alienazione sia tra le mani di una disobbedienza civile che perde di vista la moralità e il bene sociale. Il rispetto dell’uomo e della sua natura libera sono portatori di un valore che va oltre qualunque legge.