«L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante.»
E invece, una dozzina d’anni dopo, chi scriveva questa annotazione nel suo diario alla pagina del 23 novembre 1937 si toglieva la vita in un afoso agosto torinese del 1950.
Sto parlando di Cesare Pavese, nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo in provincia di Cuneo, un paesino nelle Langhe che diventerà presto il fulcro del suo percorso interiore, letterario e poetico. In quel paese, infatti, congiungeranno l’universo mitico, l’attrazione verso gli antichi e la sfera della solitudine che lo contraddistingueranno per tutta la durata della sua breve ma intensa esistenza. Pavese ci ha lasciato così infiniti scorci paesaggistici delle Langhe, nonostante abbia trascorso gran parte della sua vita e formazione a Torino. Questi luoghi, più che mai, gli sono cari durante l’esilio da parte del Fascismo a Brancaleone, in Calabria. Pavese qui scrive un romanzo sulla sua condizione di esule, “Il carcere”, sentendosi lontano da ciò che lo circonda, avvertendo che l’unico luogo per combattere la sua battaglia si trova a casa, dinnanzi alle sue terre, perché se non troviamo accoglienza nel luogo che ci ha cresciuti, non la troveremo da nessuna parte.
Un paio di anni dopo il ritorno a Torino, nel 1938, diventa ufficialmente redattore di casa Einaudi. Questo periodo è segnato da infaticabile lavoro e dedizione e presto la casa editrice diventa tutto, nonostante gli sgarbi e le arrabbiature di cui Pavese scrive nei carteggi, spesso ironici, con Giulio Einaudi. Negli ultimi anni ha modo di lasciare una traccia indelebile nella persona di Italo Calvino, di cui intuisce subito la grande intelligenza e l’abilità nello scrivere. Calvino, pochi anni dopo la morte del maestro, lo ricorderà così: «Vero è che non bastano i suoi libri a restituire una compiuta immagine di lui: perché di lui era fondamentale l’esempio di lavoro, il veder come la cultura del letterato e la sensibilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e commercio d’idee, in pratica e scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna».
Pavese, forse più di un importante saggista, traduttore, redattore e scrittore, è stato un poeta e soprattutto un uomo. Le poesie l’hanno accompagnato per tutta la vita, da Lavorare stanca a Poesie del disamore, camminando fianco a fianco durante un percorso colmo di solitudine, nostalgia, dolore e un grande, inestinguibile vuoto. Pavese cerca nella letteratura uno sbocco, una via di fuga per disfarsi dei suoi sentimenti e trovare quella che lui chiama «simpatia totale».
La «simpatia totale» è forse il vero campo di battaglia su cui Pavese combatte tutta la vita; il desiderio di provare amore per una donna, e di legarsi a lei indissolubilmente, diventa così il luogo in cui cercare l’infinito e alleviare il dolore di vivere. La sua vita è un’attesa continua, «interminata», se volessimo citare un altro celeberrimo autore che dialoga col dolore universale che avverte fin dalla più tenera età: Leopardi. Soffocato dentro la sua abitazione a Recanati uno, alimentato dalle Langhe l’altro; i due poeti vengono a collidere nella congiunzione eterna tra amore e morte. Quando non troviamo l’amore, spunta fuori la morte. Pavese scriveva: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Ecco, io continuo a domandarmi quali occhi vedesse riflessi nello specchio l’uomo che, in una torrida giornata estiva torinese, saliva in albergo e ci lasciava perdonando tutti e chiedendo perdono a tutti.