In questi ultimi decenni il mondo ha intrapreso la strada della globalizzazione: in ogni paese sono presenti riferimenti culturali e prodotti di stati esteri cosicché ogni persona in qualunque luogo, o quasi, si possa sentire a casa. Un fenomeno culturale principalmente estero di cui si parla poco e spesso male nel nostro paese è la continua e incessante espansione del settore videoludico. Per chi non sapesse di cosa sto parlando, il settore videoludico comprende per la maggior parte i videogiochi per piattaforme di gioco come Play Station e Xbox (tanto per citare le due più famose) ma anche tutte le applicazioni di gioco per piattaforme diverse come gli smartphone e i tablet (Angry Birds e Candy Crush ad esempio).

Oggi in televisione raramente si parla in modo corretto dei videogiochi perché si prendono come esempio solo i titoli più violenti come GTA o simili, i quali non rappresentano però il vero spirito del videogame, che é quello dell’intrattenimento inteso come lusus, ovvero divertimento creativo (volendo citare Catullo). Negli ultimi anni si sono sviluppati titoli sempre più complessi dal punto di vista della profondità della trama e dell’introspezione dei personaggi. Un esempio? Heavy Rain. Thriller in cui il personaggio principale, un architetto che ha perso tutto, deve superare delle prove per salvare il proprio figlio. In questo titolo la parte interiore di ognuno dei personaggi con cui si devono affrontare le missioni é decisa dal giocatore, in quanto chi gioca deve compiere delle scelte, accorgendosi così di come sia realmente o di come vorrebbe essere, proiettandosi nel videogioco. La trama é coinvolgente e molto ben strutturata; essa cattura e non lascia più andare il videogamer che vuole scoprire la verità che si cela dietro il rapimento del ragazzo. Da questo titolo e da molti altri si evince che i videogiochi non sono solo spara spara e basta ma sono anche esperienze per colui che ci gioca.

Pokèmon è il chiaro esempio di un titolo che è stato pensato per promuovere l’accrescimento interiore del bambino. Egli infatti deve provvedere ad accudire un “animale”, anche se in realtà bisognerebbe chiamarlo monster come si evince dal titolo, sotto tutti i punti di vista. Deve nutrirlo, accudirlo e nei titoli più recenti anche giocarci e portarlo a in giro con sè fuori dalla pokèball. Insomma questo videogioco ha lo scopo nascosto di insegnare al bambino ad accudire gli animali e in generale le altre forme di vita, ma non solo. Esso insegna anche il rispetto nei confronti degli altri allenatori, ovvero delle altre persone, che non devono essere visti come nemici ma come rivali nel senso positivo della parola: bisogna cercare di superarli in modo onesto. Dunque insegna anche ad avere pazienza ed ad assumersi le proprie responsabilità.

Allora si può dire che i videogiochi (attenzione non tutti!) insegnano o possono insegnare qualcosa? Certo. Ora sorgono delle domande però: ma come può un videogioco dove bisogna far combattere degli animaletti insegnare qualcosa? Dove li vedi tu questi insegnamenti? Il fatto è che essi non sono lì in bella vista che ci chiamano da dentro la cartuccia o il disco ma sono nascosti sotto la superficie del videogioco. Sta poi al videogiocatore assimilarli: o passivamente, come nel caso di Pokèmon, oppure scovarli sotto una montagna di proiettili. Avete capito bene ho detto sotto una montagna di proiettili. Ho usato questa espressione perché anche da titoli che appartengono al genere sparatutto si può imparare qualcosa, e questa è stata una mia personale esperienza, come tempo fa scrissi in una mail inviata ad una youtuber italiana: “Volevo, parlarti, prometto brevemente, del gioco che mi ha dato delle emozioni forti e che ho considerato un vera forma d’arte: Halo. Io sono un enorme fan della saga e ho letto quattro libri su sette che hanno pubblicato. Ho il film, l’enciclopedia, e tutti i titoli (a parte il 2 che non hanno fatto per 360). Questa serie mi ha fatto capire l’importanza dell’ amicizia, della lealtà e dell’onore che si prova a seguire i propri ideali.” Non esageravo quando scrissi ciò, poiché tali erano gli insegnamenti che si nascondevano sotto la superficie di un gioco, che definisco capolavoro per grafica, giocabilità, colonna sonora e soprattutto trama e sotto-trama nascosta in vari terminali sparsi per il gioco, volto per la maggior parte a uccidere nemici. Se però si scava a fondo si può anche comprendere il perché di queste uccisioni continue: o noi, gli umani, o loro, i Covenant. La guerra protratta da questi alieni (Halo è un titolo fantascientifico ambientato in un futuro remoto) è in realtà uno sterminio di massa del genere umano che ha come scopo finale il raggiungimento della divinizzazione tramite l’utilizzo degli Halo sparsi per lo spazio (che per altro porterebbe all’estinzione di ogni forma di vita senziente nella galassia), enormi anelli risalenti ad una civiltà precedente. Dunque gli uomini combattono per salvarsi ma anche per salvare la madre terra e tutti gli esseri viventi dall’annichilimento. Io ho imparato molto da Halo e sono sicuro che in molti altri giochi vi sia, nascosto sotto la superficie, uno o più insegnamenti utili a tutti noi.

I videogames dunque possono insegnare, come dedotto precedentemente. Il loro insegnamento non è univoco e uguale per tutti. Esso varia a seconda della maturità dell’individuo e della sua cultura, senza contare che la sensibilità del videogiocatore gioca un ruolo fondamentale: esso deve immergersi a fondo nell’opera per comprenderne la bellezza e gli ideali che esso può trasmettere. Volendo citare Wittgenstein il significato di una parola varia a seconda di chi la pronuncia, chi la ascolta, la cultura di entrambi, il contesto logico della frase e tendo ad aggiungere, di mio pugno, anche il contesto sociale in cui sono inseriti i due interlocutori. Dunque videogiocatori diversi possono recepire messaggi diversi provenire da un titolo, oppure comprendere le medesime cose o non percepire nulla provenire da quel titolo.

 

Daniele Dutto