«Una promessa è sempre eccessiva. Senza questo eccesso essenziale non sarebbe altro che una descrizione o una conoscenza dell’avvenire. Il suo atto avrebbe allora la struttura di una constatazione e non di un atto performativo».
Così scrive Jacques Derrida in Memorie per Paul de Man nel 1988. Sono parole bellissime, vere, e che per questo vanno comprese. Negli anni ’40, nell’ambito della filosofia del linguaggio, John Austin aveva distinto tra enunciati dichiarativi ed enunciati performativi: i primi sono le frasi descrittive, con cui semplicemente si dice ciò che si osserva nella realtà; i secondi sono le frasi che creano un nuovo stato di cose. Ad esempio, dire «mi dispiace» è un atto con cui mi limito a descrivere il mio stato d’animo; invece nel momento stesso in cui proferisco «mi scuso» agisco sulla realtà, mettendo in pratica l’atto stesso dello scusarmi.
Tra gli atti performativi per eccellenza si trova, ovviamente, quello della promessa. Ed è su questo che Derrida si sofferma. Lo si capisce bene se si pensa al rito matrimoniale. Lì la promessa di fedeltà crea una nuova condizione esistenziale e insieme giuridica, e questo è davvero incredibile: una parola è in grado di decidere la realtà tangibile. La promessa richiede un salto di qualità, un salto nel vuoto, un salto di fiducia; implica uno scarto rispetto alla realtà oggettiva e visibile delle cose, già solo per il suo protendersi verso il futuro. In questo senso è eccessiva.
Con la promessa si rende reale ciò che è ancora soltanto possibile, il che va contro qualsiasi legge logica, perché a rigor di logica si può affermare che un possibile è reale solo quando lo è diventato davvero, e non certamente prima. Si pro-mette, si pone una condizione allo svolgersi del futuro, prima che quel futuro arrivi. Durante una promessa, non ci si limita a dire il proprio impegno con riserva: si dice ciò che sarà, a prescindere da ogni cosa. E questo pare divino, proprio per il suo andare contro la logica. Così la promessa è sempre un atto eccessivo. Lì ci si aggrappa a ben poco, non c’è il mancorrente della realtà a cui tenersi; non ci si limita a descrivere uno stato di cose esistente, lo si crea. È in questo senso che Derrida parla di uno scarto, di un eccesso che costituisce la natura stessa della promessa: essa è eccessiva perché chiede di andare oltre, perché contiene un di più che la caratterizza.
La promessa richiede un atto di fiducia, verso l’altro e verso se stessi. In questo suo essere eccessiva, in questa sua richiesta di fede, la promessa è un atto quasi incomprensibile, misterioso, che genera «l’incredibile, e il comico», per citare ancora Derrida. Questi non sono aggettivi dispregiativi, perché il comico e l’incredibile fanno parte della vita e anzi devono essere custoditi.
Le parole di Derrida battono in breccia tutta la mania di controllo di cui è facile preda il piccolo e vile uomo moderno, così attaccato alla realtà da non avere più il coraggio di rischiare, di pronunciare una parola eccessiva. Eppure è proprio qui che sta la bellezza dell’atto performativo, quell’atto che crea, quella parola che cambia la realtà, proprio come insegna il prologo giovanneo: in principio era la parola, ed essa si fece carne. E senza di lei nulla di ciò che esiste è stato fatto.