Ho uno sguardo in sospeso con te. Ho gli occhi che mi bruciano, che urlano, che vogliono scorgerti un’ultima volta. Ti cercano, disperatamente, vogliono sentire ancora una volta il profumo della prima volta, della prima estate, della prima luna, del primo passo mosso sulla sabbia umida quando tutto intorno era inverno. Ho uno sguardo in sospeso con te, anche se non so da che parte iniziare a guardare. Tutto pare così latente, così nebbioso, come se solamente la punta delle mie dita sia materiale o forse nemmeno quella.
Come devo usare questi occhi? Devo veramente credere a tutto ciò che mi avvolge o non è altro che il riflesso della mia anima troppo sognatrice? O sogni, o aspirazioni, è così che m’illudete del mondo esterno?
Quel gusto amaro in bocca la mattina appena sveglia, ecco ciò che rimane del nostro mondo vero, di quello in cui ci disegniamo le nostre storie, dipingiamo i nostri quadri, dove un cuore lacerato può solo sanguinare acqua e non dolore. Quel gusto amaro, quel fastidio sulle labbra lavato via con l’inerzia giornaliera è proprio quello che pretende un ultimo sguardo, un’ultima parola con te.
Cara vita, che tanto buona sei stata con me, che mi hai dato occhi blu che trovano casa nel mare al tramonto, che mi hai dato lunghi capelli castani che hanno preferito rimanere corti, che mi hai dato un’anima sensibile, fragile, che tende sempre a rimanere imbalsamata nel sorriso sincero di un amico, in un quadro nascosto in una galleria d’arte, in un libro dimenticato in libreria. Tu, vita, voglio vederti tornare, voglio vederti esserci, con quel profumo d’inaspettato che pretendi sia solo tuo, che lavi via quell’amaro ormai troppo frequente: voglio berti in un bicchiere a tarda notte e cancellare via ogni mancanza, ogni rimorso. Ti ho aspettato per quest’ultimo sguardo, ti ho aspettato nei giorni scuri d’incertezza dalla finestra; eri una vetrina troppo spoglia o forse ero io a essere in una vetrina ma nessuno ci è mai passato davanti perché tu, allora, non c’eri.
Ora, in un secondo, ho sentito bussare alla porta, vado ad aprire e torno o forse non tornerò più. Eri lì, con la bellezza del primo respiro, del primo passo, della prima lacrima versata, della prima risata. Sei tornata, come la prima volta.
Cara vita, ora voglio farti vedere io cosa si nasconde dietro l’amaro delle sei di mattina: ti voglio dimostrare dove egoisticamente ti ho tenuta nascosta nei ricordi, quando ormai ti davo per morta; eri ancora presente, ti nutrivo di sensazioni passate, dei baci che ho dato, delle pagine che ho studiato, delle canzoni che ho ballato quando la musica ancora non spaventava. Eri lì, protetta, ti disegnavo qualche volta in uno sguardo malinconico quando tutto il resto era fermo e l’unica consolazione era il passato. E tu, mio egregio passato, mio confortevole amico in balia del dolore, mi hai custodito una vita che era astratta, lontana, a viverla non era la me stessa che sono adesso.
La mortalità cambia tutti. Perchè sì, è quel che siamo stati: tu, vita, te ne sei andata e, per un attimo infinito, non abbiamo temuto la morte. Ma la morte, io, la voglio disperatamente temere, ne voglio essere terrorizzata, voglio sentire i brividi di una ferita, come voglio sentire il cuore piangere quando vede una stella cadente troppo lontana, voglio sapere cosa significhi vedere una persona e avere le farfalle allo stomaco, voglio sentire un bacio al profumo di rose che mi racconta la sua vita, voglio un abbraccio che sussurra “sempre”. Voglio tutto questo, fino alle viscere. Voglio la morte perché significa che tu sei qui, vita.
Sono qui, ho aperto la porta e non posso fare altro che accoglierti, stringerti.
- Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ci siam viste?
- Dieci anni, come anche un secondo.
Ci sediamo al tavolo, a consumare quello sguardo in sospeso che avevamo. E ora? ti chiedo. E tu, con uno sguardo di sfida, quello sguardo che tanto volevo vedere, quasi beffandoti di me, rispondi Ora son qui. Non hai più nessuna scusa.
testo a cura di Cecilia Capello