Vedi l’attore (*) sul palco, e ti chiedi che strano mestiere sia il suo: tu hai sempre visto solo persone che fanno lavori con orari fissi, di giorno o di notte, ma mai che prevedono impegni saltuari e solo in alcuni periodi. Hai iniziato a vedere (o meglio il verbo “partecipare al”?) teatro qualche mese fa e ti è venuto questo pensiero. Continui a “partecipare al teatro”, cresce la tua stima per coloro che dal palco ti regalano emozioni: attori, registi, scrittori. E ad un certo punto inizi a vederli come eroi, esseri illuminati, tendenti al divino. Stop, facciamo un passo indietro.
Da quando è iniziata la mia passione per il teatro, è cresciuta in me la curiosità per l’attore: non tanto quello sul palco, ma quello che poggia la testa sul cuscino, dopo una doccia in una notte di estate per lavarsi il sudore della serata a recitare; insomma la mia curiosità per quello spazio che viene prima del palco. Spazio umano, di lavoro e vita, che nello stesso modo dello spazio del palco, è stato, con un processo di mitizzazione della mia mente, elevato a livelli divini. La mia mitizzazione dell’attore non è un approccio utile a considerarlo un lavoratore come gli altri, e infatti io lo considero un lavoratore diverso, ma, e questo ma è fondamentale: non diverso per i diritti e le garanzie che deve avere.
Secondo l’interpretazione di Marx del lavoro, l’attore è il lavoratore per eccellenza: nel suo lavoro esprime, oggettivizza se stesso, nel modo più autentico. E infatti nel mondo del lavoro di oggi sempre più artificiale e spersonalizzato a livelli diversi, l’attore sembra essere un lavoratore “strano”, ma è eccome un lavoratore. A questo punto, qualcosa non torna: allora perché io lo mitizzo? Probabilmente ho molta stima di una persona che ha ancora il coraggio di lavorare in questo modo, ho invidia della sua passione. E mitizzandolo lo pongo come modello distante da me, non reale, qualcosa a cui non posso davvero giungere: così mi precludo in partenza il percorso che potrebbe portare anche me a lottare per un mestiere che mi permetta di esprimere me stessa. E’ la realtà intorno che preme, coi suoi ritmi e le sue richieste, che sembrano così più a portata di mano.
Ancora in cerca di una prospettiva, ho fatto qualche domanda a due attori, partendo dalle mie curiosità.
Partiamo da un momento peculiare della vita di un attore: gli applausi del pubblico. E’ una coincidenza che entrambi gli attori che ho intervistato abbiano citato questo momento spontaneamente? Erika dice che il momento più difficile per me è alla fine dello spettacolo, quando devo prendere gli applausi, in quel momento l’attore toglie la maschera e non ha più il personaggio a proteggerlo, e allora lì viene fuori Erika con tutta la sua fragilità e timidezza, ancora ho difficoltà a ricevere i complimenti. E Federico invece: durante il periodo di repliche il momento più bello è quello degli applausi. L’incontro con il pubblico.
Erika ha parlato di difficoltà a ricevere i complimenti e di maschere, ed ecco che ritornano a galla per me una serie di domande: il teatro aiuta a diventare più estroversi? Aiuta a superare timidezza e impaccio? E’ una domanda comune, ma anche mal posta, e mi hanno aiutato a rifletterci in questo senso le parole di Federico: Il teatro fa bene, ti trasforma. È una buona medicina per la vita e sicuramente può rivelarsi utile anche per chi è introverso.[ ] La pratica del teatro riesce a toccare qualcosa di estremamente profondo. [ ]E la stessa utilità, ovviamente, vale anche per chi possiede un carattere più estroverso. La sua “apertura” verso il prossimo può sicuramente rivelarsi un’arma vincente dal punto di vista teatrale. È un’apertura verso i compagni in scena così come verso il pubblico.[ ] E quell’apertura che il teatro ti permette di esplorare, quell’ ascolto verso il prossimo, quella sensibilità che per forza deve essere il tuo terreno di gioco, riesci a portartela dietro nella vita di tutti i giorni.
Scendiamo ora dal palco e indaghiamo dietro le quinte: com’è la routine per un attore? Ha una routine? Mentre Federico mi risponde che più che altro ha una routine di lavoro – Lo studio continuo del testo, la memoria, le prove… – Erika pone l’attenzione su un aspetto del lavoro a volte sottovalutato: Ogni mattina faccio i 5 Tibetani, esercizi presi dallo yoga che lavorano sull’ equilibrio dei chakra. Sono per me un rituale che rafforza il corpo e lo spirito. Ritengo che l’attore debba fare un gran lavoro su di sé, prendendosi cura della sua anima e del tempio che la custodisce: il corpo. L’attore è un’atleta.
Rimanendo sempre dietro le quinte: quando non si va in scena, i periodi di creazione e di prove come sono? Federico dice che il momento più significativo è proprio la ricerca, il momento delle prove. Lo stare in contatto con i colleghi e trovare insieme la meraviglia che riuscirà a far decollare il lavoro. E invece Erika testimonia una certa difficoltà – La cosa più faticosa sono i periodi di inattività teatrale – ma che si rivela alla fine fruttuosa: la criticità del momento rende quei periodi in assoluto i più proficui e creativi. Io stessa in periodi del genere ho scritto pensieri che poi hanno portato alla nascita di uno spettacolo.
Usciamo ora dalla sala prove e parliamo dell’inizio di una carriera teatrale: come nasce un attore? Che difficoltà incontra? E qui di nuovo le risposte vanno d’accordo: Federico dice che i suoi genitori lo hanno sempre appoggiato, ma aggiunge: Devo dire, però, che da quando è diventato un mestiere è anche motivo di scontro. Mi hanno sempre implorato di trovare un piano B, perché capiscono che, ahimè, non è un lavoro che assicura una certa continuità. E Erika parla di appoggio totale dei suoi genitori, di sua madre che è la mia Fan numero uno e non vede l’ora di vedermi su Rai 1 a fare una “fiscion” come le chiama lei; ma ricorda anche come al primo anno di scuola di teatro suo padre le abbia detto: Con il teatro non si campa!. E aggiunge: A distanza di anni devo dargli ragione, io purtroppo non faccio solo l’attrice, e negli anni ho svolto così tanti lavori da dovermi creare un doppio Curriculum, quello artistico e quello civile!.
Quest’ultima amara affermazione non significa che Erika non consideri il teatro un mestiere, anzi alle mie domande, risponde che è la professione più bella e insieme più difficile e che per l’attore far teatro è insieme passione e lavoro. E Federico aggiunge che deve essere considerato come tale, non solo da noi artisti ma da chiunque e che come per tutte le cose, anche in teatro serve un valido percorso d’istruzione, e poi chiaramente la pratica. Nonostante questo anche lui, come Erika, dice che la cosa più faticosa è vivere di questo mestiere.
Entrambi aprono il delicato discorso del lavoro teatrale in Italia: Erika dice che è molto complicato fare l’attore, almeno in Italia, non ci sono tutele adeguate ed è un continuo stare sulla fune; Federico, parlando dei lavoratori teatrali e della situazione critica del lavoro oggi, dice: la nostra categoria sembra risentirne più delle altre. È giunto il momento di dare maggiore dignità alla figura dell’attore, ma mi sento di dire dell’artista in generale. Fare teatro, sì, è un mestiere. E come tale deve essere regolarmente retribuito. E deve avere garanzie. E deve avere tutele.
Per finire, mi hanno molto colpito, a proposito della difficoltà di questo mestiere, alcune affermazioni: quelle di Erika sulla difficoltà di accettare che era questo il suo “Sogno”: sin da piccola mi sono sempre vista donna in carriera, impegnata. Ho fatto diversi cambi all’università prima di comprendere che la mia strada era il palcoscenico. Sono passata da Scienze Biologiche a Giurisprudenza! Ma non fare quello che desideravo mi faceva stare male. E, tornando alla situazione di oggi, Federico parla di una passione che ci brucia dentro che impedisce di rassegnarsi, del bisogno di far sentire la propria voce, trovare insieme una soluzione, e non dimentica il pubblico: “Mai come ora il pubblico ha bisogno di noi, e figuriamoci: mai come ora noi abbiamo bisogno di pubblico. Perché altrimenti il nostro mestiere puf, svanisce in un attimo. Se non c’è pubblico non c’è teatro.
Probabilmente non definitiva, ma ecco la prospettiva a cui sono giunta: l’approccio migliore per chi ama il teatro (ma direi l’arte in generale) è considerare l’artista (*) un esempio di “lavoratore alla Marx”, uno dei pochi rimasti, stimarlo, ma non perciò, tramite la mitizzazione, negargli le sue sembianze di un lavoratore con dei bisogni, come tutti gli altri. Questo aggraverebbe una crisi del teatro (e dell’arte), che oggi è stata messa ancor più in risalto dalla pandemia, dall’assenza di misure per tutelare la classe dei lavoratori artisti. E’ una crisi di considerazione del teatro (e dell’arte), che si riflette oggi nel “ma non è un’attività fondamentale”; non credo che sarebbe azzardato dire che questa crisi, iniziata ormai da anni, ha uno dei suoi motivi principali nell’idea che l’arte, ”lavoro alla Marx”, non produce niente di concretamente visibile, di misurabile in termini di quantità; ma è un lavoro che dà vita – vita! Non oggetti inanimati – a spazi di condivisione e libertà.
(*) si sono usati i termini “artista” e “attore” come equivalenti della totalità di tutti gli artisti e attori indipendentemente del loro genere
Ringrazio molto Erika La Ragione e Federico Palumeri per aver risposto alla mie domande, ampiamente e con piacere.