Una veranda di vetro trasparente che dà su un podere della campagna russa. All’interno sei personaggi ululanti di risentimento, legati da arzigogolati legami familiari e triangoli sentimentali. Una distesa senza fine, non degli alberi che tanto ama il medico e amante dei boschi Astrov (l’unico che in qualche modo riesce a vedere al di là del proprio naso e dell’asfissiante veranda), ma di monologhi senza fiducia in risposte altrui.
Produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, ad opera della regista ungherese Kriszta Székely, Zio Vanja di Čechov, debuttato nel lontano 1900, rivive per noi al teatro Carignano di Torino a gennaio.
Serebrjakov, intellettuale in pensione che da una vita riceve i proventi della tenuta senza essersene mai occupato, è da poco tornato in campagna con la seconda moglie, la bellissima Jelena. Qui ad aspettare l’anziano ci sono l’odio di Vanja, fratello della prima moglie defunta, che da anni si occupa del podere; e l’ossequenza di Sonia, sua figlia di primo letto, e della nonnina Maria Vassiljevna, madre della prima moglie, che hanno passato gli ultimi anni a seguire estasiate le sue attività. Il quadro si complica con l’affascinante e originale medico Astrov, chiamato per i presunti sintomi di malattia di Serebrjakov. La convivenza è segnata da trame sentimentali segrete, ma soprattutto, come si diceva, di tesi discorsi sul futuro e sul passato. E di cosa vaneggiano questi personaggi? Infatti non dialogano con gli altri, che forse sarebbe l’unica possibilità di una prospettiva di comune felicità, ma pensano ad alta voce. Vaneggiano: su come hanno sprecato il loro passato e non sanno da dove ricominciare per un futuro diverso; sulla vecchiaia; sulle scelte sbagliate e l’infelicità; sull’ottusità dell’umanità che distrugge senza prevedere le conseguenze.
Sembrerebbe una miscela capace di farti deprimere al primo istante, ma personalmente sia il testo di Čechov sia la messa in scena di questa emergente regista hanno avuto un effetto catartico. Su un pubblico giovane questo effetto è prevedibile: dal contrasto tra tutti questi rimpianti e la sensazione di avere il proprio futuro in mano, un giovane non può che uscirne rafforzato e rinvigorito. Čechov scrisse: < Io non ho scritto (le mie opere) per far piangere la gente.[ ] Volevo soltanto dire onestamente alla gente. “Dovete capire in che modo noioso e terribile vivete!” Cosa c’è da piangere su questo? > Credo che in questa frase si nasconda lo sguardo ironico che punta sui suoi personaggi, ironia espressa in questa messa in scena, nata da una scelta di riadattare un testo che è più che mai attuale: non solo per l’universo umano oggetto del testo, che si conferma immutato, ma anche per il bisogno che abbiamo di guardare alla realtà in una maniera satirica, che aveva Čechov, come abbiamo noi oggi.
Quindi non ho potuto che uscire dalla sala con un sorriso beffardo per la forte sensazione di presa sulla mia di vita, in contrasto con tutta la confusione dei personaggi sul palco. E questo nonostante un finale che non alleggerisce la tensione della prima parte, anzi la conferma coprendola con un velo di accettazione. Si tratta di un finale che non ci si dimentica, che vale tutto lo spettacolo, pieno di rassegnazione dolorante ma ispirata. Sonia ripete stancamente: “Io credo, zio, credo, con tutte le mie forze, con tutta l’anima, credo…”, “Riposeremo!” Buio.
Visto il 15 gennaio 2020 al Teatro Carignano di Torino.
di Anton Čechov
adattamento Ármin Szabó-Székely e Kriszta Székely
traduzione Tamara Török
curata da Emanuele Aldrovandi
con Paolo Pierobon, Lucrezia Guidone, Beatrice Vecchione, Ivan Alovisio, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Franco Ravera, Federica Fabiani
regia Kriszta Székely
scene Renátó Cseh
costumi Dóra Pattantyus
luci Pasquale Mari
suono Claudio Tortorici
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Per avere informazioni sullo spettacolo visita il: https://www.teatrostabiletorino.it/portfolio-items/zio-vanja-7-26-gennaio-2020/