Nella storia della letteratura, ci sono stati periodi in cui, per gli intellettuali, è stato impossibile sottrarsi alle istanze del proprio tempo. È accaduto, ad esempio, negli “anni della ricostruzione”, quando, a guerra conclusa e a Fascismo sconfitto, la letteratura, uscita dalla propria turris eburnea, ha sentito l’esigenza di raccontare la guerra, la vita delle classi basse e, più in generale, i problemi sociali che attanagliavano l’Italia del secondo dopoguerra. In seguito, durante il boom economico, autori quali Elio Vittorini, Vittorio Sereni e Paolo Volponi – per citarne alcuni – hanno iniziato a esplorare e a ospitare nei loro versi e nelle loro prose un ambiente reificante come quello della fabbrica.
Ma non è solo nel Novecento che si è diffusa la letteratura engagée: basti pensare al trattato politico Monarchia di Dante Alighieri, in cui il sommo poeta espone la sua apologia dell’Impero, in un secolo dominato dal gravoso conflitto tra il potere papale e quello imperiale, o, ancora, al Principe di Niccolò Machiavelli.
Per quanto riguarda gli ultimi decenni, la linea di demarcazione tra finzione e realtà è diventata più labile, con il diffondersi del genere della non-fiction, a cui si può ascrivere Gomorra di Roberto Saviano.
Dunque, anche oggi e come sempre, la letteratura non rimane muta di fronte alle questioni più urgenti e spinose del suo tempo; una tra queste è il cambiamento climatico, che, anche grazie a movimenti come il Fridays for Future di Greta Thunberg, è sempre più discusso. A interessarsene ci sono autori più apocalittici, come Jonathan Franzen, i quali hanno una visione piuttosto tragica del nostro futuro, ma ci sono anche scrittori che nutrono ancora qualche speranza. A questa seconda categoria afferisce Jonathan Safran Foer, il quale, nel suo libro Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi, pubblicato lo scorso settembre, propone uno stile di vita che riduca l’impatto sull’ambiente.
Nel libro, Foer presenta alcune storie che mostrano come l’azione collettiva, fortemente motivata e, in alcuni casi, supportata dallo Stato, possa modificare in maniera incisiva il corso degli eventi; inoltre, denuncia l’ottusità di chi preferisce addirittura negare l’esistenza di un problema, piuttosto che risolverlo. In seguito, l’autore fornisce alcuni dati, frutto di una minuziosa e accurata ricerca condotta da lui negli ultimi anni e testimoniata dalla ricca bibliografia che si trova al fondo del libro, per dimostrare la dannosità dell’eccessivo consumo di carne e, dunque, degli allevamenti intensivi. Secondo Foer, cambiare la nostra alimentazione è una priorità, se si vuole rispettare il pianeta e arginare il problema del clima, perché, anche se tutti mettessero rigorosamente in atto tutte le buone pratiche ambientaliste, come riciclare o prendere i mezzi pubblici, non si inciderebbe abbastanza sul pianeta. La sua proposta è quella di «salvare il mondo prima di cena», ovvero di cercare di evitare di mangiare carne e prodotti di origine animale se non a cena (o solo nei week-end, o in occasioni speciali): se eliminare del tutto carne, uova e latticini dalla propria dieta può sembrare una condanna a morte, ecco una dieta che implica dei sacrifici tutto sommato risibili, se confrontati con l’importanza di rispettare e preservare la Terra.
Facendo ciò, è, quindi, possibile salvare il mondo? A questa domanda, postagli da Paolo Giordano in occasione della presentazione del libro a Torino, Jonathan Safran Foer risponde che, sicuramente, i cambiamenti in atto non possono essere del tutto arrestati, ma, se si opera di concerto, si possono raggiungere traguardi importanti.