Non siamo soli. Concretamente parlando, nessuno è solo. Viviamo in un contesto sociale che ci obbliga a confrontarci con l’altro. E il confronto è d’obbligo anche con il mondo in cui siamo inseriti. Che lo vogliamo o meno, siamo tutti animali sociali, con un intrinseco desiderio di curiosità, che si lega in maniera quasi indissolubile alla nostra volontà di sapere tutto ciò che concerne le cose del mondo. Questo è il giornalismo.
490 a.C.: l’uomo sembra nuovo nel mondo, benché ci sia da sempre vissuto. La democrazia, la filosofia, la geometria. La cartografia con terre mai viste, il timore dei mari, il coraggio di attraversarli. Il nuovo modo di esserci dell’uomo lo fa sentire diverso. La volontà di comunicarlo non è attenuato dai limiti imposti dai mezzi. Così gli uomini hanno iniziato a correre. Ma non sapevano fino a dove sarebbero arrivati.
Atene ha appoggiato alcune colonie della Ionia insorte al controllo dell’Impero Persiano. All’Imperatore, questo, non sta bene. L’esercito persiano si prepara all’attacco. Ordina a Dati e ad Artaferne di organizzare le truppe per attaccare Atene. Le flotte salpano nel Mediterraneo, sottomesse le isole Cicladi ed Eubea, approdano sulle coste della città di Maratona. Sulla terra ferma giungono voci dell’imminente invasione, ma niente panico: l’esercito greco si organizza e accerchia il nemico che fugge, ma non si arrende. Prossima mossa: cogliere di sorpresa Atene, priva di ogni difesa, ora che l’esercito è a Maratona. Lo stratega Milziade, capo delle milizie greche, intuisce la trappola, supera il nemico ed anticipa la sorpresa. Lo sconfigge. Il soldato Fidippide viene incaricato di annunciare la vittoria, ad Atene. Corre per 44 km, tutti d’un fiato. Giunto alla Polis pronuncia la celebre frase “Nenikèkamen”, ovvero Abbiamo vinto. In seguito, secondo la leggenda di Plutarco risalente al I secolo a.C., confermata poi da Luciano di Samosata il secolo successivo, muore per lo sforzo.
Fidippide non aveva carta, nè inchiostro. Ma aveva gambe e fiato. E qualcosa da dire.
La corsa non si è arrestata a Maratona. Duemilaquattrocentotrentatrè anni dopo, nel settembre del 1943, le notizie percorrevano altre strade. L’umanità aveva compiuto passi da gigante, attraverso le scoperte e le invenzioni delle rivoluzioni industriali. Venne inventata la prima locomotiva a vapore, nacque la fotografia, venne brevettato il telefono di Bell, il fonografo di Edison, vennero studiate le onde radio grazie a Marconi. Ma mentre una parte del mondo si abituava a queste novità, un’altra parte a forma di stivale resisteva alla guerra e vedeva la luce in una flotta che stava per approdare alla costa tirrenica.
Il generale Clark, a capo della Quinta armata americana, sbarca a Salerno. Le truppe devono riunirsi con quelle britanniche già sbarcate in Calabria qualche giorno prima, capeggiate dal generale Montgomery. La Sicilia è già libera. Le prime battaglie sono vittoriose per l’esercito alleato. Ma i successivi scontri con il portento tedesco, guidato dal maresciallo Kesselring, lo mettono in difficoltà. Un aiuto aereo-navale rinvigorisce le file americane: i tedeschi sono costretti alla ritirata negli Appennini. Si chiama Operazione Avalanche quella che dovrebbe far abbandonare il territorio Italiano dall’esercito tedesco. Nello stesso giorno, la stessa Salerno, viene bombardata. La popolazione si nasconde nei rifugi antiaerei; unico contatto con il mondo esterno, la radio. “La Nazione vuole con la pace la sua indipendenza e il suo riscatto” scrive l’Unità a seguito dell’inaspettato armistizio annunciato da Pietro Badoglio via radio al popolo: l’Italia non è più in guerra. Ma la guerra non è ancora finita.
Non c’erano i computer, né tantomeno il web, ma avevano carta, inchiostro e radio. E sicuramente qualcosa da dire.
Dopo i grandi cambiamenti che hanno trasformato il modo di vivere la quotidianità, le macerie della Seconda Guerra Mondiale hanno fornito le basi per la più grande rivoluzione umana e civile mai vista prima: ora a cambiare è il modo di vedere il mondo. Dagli orrori dei massacri si sollevano nuovi concetti, diritti ed ideali, che modificano il pensiero, il modo di comunicare e quello di ascoltare. Eppure, ancora nel febbraio 2015, alcune menti rimangono incatenate a pericolosi chiodi fissi. La finestra sul mondo di milioni di persone dà un’immagine immediata e trasparente di cosa sta succedendo in Siria: la guerra civile.
“Esercito contro ribelli. Sunniti contro sciiti. Curdi contro islamisti. Islamisti contro cristiani e contro ribelli. E, infine, briganti contro tutti. Esplosa dopo le rivolte del 2011, la guerra civile siriana ha in sé diverse guerre, con fronti sempre nuovi e cruenti.” Scrive Barbara Ciolli per il quotidiano online Lettera43.
In Siria convivono arabi con aramei arabizzati, curdi con armeni e turchi, che comunicano, principalmente con l’arabo, ma anche con il curdo, l’armeno, l’aramaico e il circasso. Si somma a questa molteplicità culturale, un crogiolo di divinità: il 64% degli abitanti è sunnita, il 26% è alauita e drusa, il 10% è cristiana, e ci sono piccoli gruppi di ebrei e comunità di correnti sciite. Un mosaico tenuto insieme a forza per troppo tempo, destinato a crollare sotto i colpi delle bombe, dei mitragliatori e dei carri armati. La guerra dimenticata dai notiziari occidentali continua a fare vittime: secondo uno studio pubblicato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani a febbraio 2015 si stimano più di 200.000 vittime, di cui un terzo civili. Sono 4 milioni i Siriani sfollati, 2 milioni e mezzo quelli fuggiti nei paesi confinanti.
Inviati speciali, statistiche e dati, foto e filmanti. Una connessione internet, e l’informazione si moltiplica. Raggiunge tutti. Forse anche chi non vuole sapere. Il mondo insiste a parlare. Le guerre hanno qualcosa da dire. Oggi lo fanno attraverso le nuove piattaforme tecnologiche che rendono sempre più semplice l’atto dell’informarci.
Notizie in tempo reale. Non ci sono limiti spaziali né temporali. Chiunque può sapere di dovunque. Interviste, immagini, documentari. Direttamente dall’altra parte nel mondo, in un attimo nelle nostre case. I miracoli tecnologici del ventunesimo secolo, pur senza avere nulla di divino, ci permettono di restare collegati con il mondo in qualsiasi momento. Perché il mondo ha sempre qualcosa da dire. E i fatti, descritti, riportati, fotografati o filmati, parlano da soli, per mezzo delle parole di chi li vive, li osserva, li ricerca.
Novità, testimonianza, comunicazione. Il giornalismo nasce dalla volontà di aggiornare, informare, rendere partecipi sugli avvenimenti che accadono in tutto il mondo i quali devono quindi essere comunicati basandosi su un criterio di assoluta verità, secondo una descrizione e una dinamica fedele ai fatti. Il giornalismo continua a vivere grazie a tutte quelle persone che continuano ad esprimere la volontà di essere aggiornati ed essere coinvolti, o più semplicemente, sono spinti dalla curiosità. “L’unico compito di un giornalista – dice infatti Anna Politkovskaja – è scrivere quello che vede”. Perché il giornalismo si basa sul rispetto dei fatti che riporta. Fa suoi pilastri la coerenza e l’oggettività. Condanna ogni tipo di falsità, annebbiamento o bugia. È il mezzo attraverso il quale le notizie raggiungono le persone. Devono essere riportate con obiettività, imparzialità, completezza e correttezza, di modo che l’individuo possa fare le proprie considerazioni e possa prendere una posizione. I giornalisti hanno la responsabilità di diffondere, quindi, il vero. Un lavoro di importanza fondamentale, nel mondo di oggi, pieno di opinioni contrastanti, punti di vista e apparenza che rischiano di farci distogliere lo sguardo dalla verità, e di farci credere in qualcosa che in realtà non è. Rischiamo di credere ad una menzogna, stando a contatto quotidianamente con così tante possibilità di deviazione. Solo una sincera analisi dei fatti può farci maturare una veritiera coscienza del mondo. La realtà, avulsa da qualsiasi interpretazione, è una sola. Per questo motivo i fatti parlano da soli, per mezzo delle parole dei giornalisti, che sono chiamati a rispettare questo vincolo di verità, assioma fondamentale che sigilla il loro operato.
A volte può non risultare così semplice: ogni giornalista è un individuo a sé stante, con una storia alle spalle, che l’ha portato a sviluppare certe sfumature, ad avere proprie inclinazioni e posizioni. Tutte queste differenze che rendono variopinta l’umanità, potrebbero risultare un ostacolo all’obiettiva narrazione degli avvenimenti. Infatti la difficoltà consiste nel discernere tra fatto ed interpretazione. Difficoltà che si supera però, se ci si sforza di osservare la realtà senza avere pregiudizi negli occhi, e considerando che il fatto è uno solo, ma che le interpretazioni invece sono tante quante le infinite personalità.
Dicono che il futuro dell’editoria, dell’informazione e della scrittura sia ormai oltre la carta stampata, relegata ai giornali online, ridotta entro i moderni 140 caratteri. Caratteristiche proprie della futura comunicazione sarebbero la brevità e le parole chiave, ognuna splendente attraverso i cristalli liquidi di un computer. Mi chiedo se il futuro non sia già qui: circondati da computer, smartphone e tablet, siamo sempre più aggiornati sulle vicende del mondo nel momento in cui accadono, ci sentiamo sempre più cittadini universali, con la convinzione che la nostra opinione, che il nostro hashtag, abbia un peso rilevante sulla bilancia del mondo.
La rete comunicativa di cui siamo unità fondamentali ci rende attenti, svegli, e sensibili ad ogni nuovo stimolo esterno.
7 gennaio 2015, Parigi: un gruppo di terroristi irrompe nella redazione di Charlie Hebdo e uccide 12 persone. “Je suis Charlie Hebdo”: il mondo dei social reagisce e si coalizza. Il lato positivo della questione è che la tecnologia di oggi fa emergere una solidarietà disarmante tra paesi e persone distanti, ma il rovescio è che è incerta la sua attendibilità. Più solidarietà, a discapito forse della consapevolezza.
L’opinione comune è quella di credere che la carta stampata sia destinata a scomparire, supportata dai dati che tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi.
Viviamo in un’era in cui abbiamo sempre più cose da dire e lo spazio per farlo acquista potenzialità infinite sul web: qui non ci sono nemmeno più limiti di carta. Inoltre fondare un giornale online è molto più semplice che creare dal nulla una nuova testata cartacea.
Tutto sembrerebbe portare a pensare che il futuro del giornalismo abbia luogo sul web: non solo negli anni il numero dei giornali esclusivamente online cresce sempre più, ma anche le testate più famose affiancano ormai al cartaceo una loro piattaforma digitale. Inoltre aumenta ogni anno il pubblico che si rivolge al web per essere aggiornato: secondo l’Istat nel 2011 il numero di persone che ha dichiarato di leggere i giornali online è salito al 25,1%, con un aumento di circa il 5% rispetto all’anno precedente, e con un picco che si riscontra tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni che tocca il 45,1%. Secondo alcuni dati raccolti dalla FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali), tra il 2013 e il 2014 il numero di giornali cartacei venduti ha subito un calo di circa l’11%.
Il futuro del giornalismo è determinato da un pubblico che a piccoli passi procede verso un mondo sempre più nuovo: tali percentuali cresceranno sempre più. La modernità dei mezzi tecnologici che si diffonderanno in ogni fascia d’età, il ricambio generazionale e i costi sempre più difficili da sostenere per mantenere lo stampato condanneranno forse il cartaceo, nonostante il suo indiscutibile valore, all’estinzione.
Non stiamo vivendo una crisi dell’informazione, ma un momento di transizione, che vede evolvere il modo di comunicare.
Gambe e fiato, carta e inchiostro, filmati e web. La comunicazione è un arte che nel corso dei secoli è cambiata e continuerà in futuro ad evolversi. Ma la costante che accomuna ogni epoca è che si basa sui fatti, sui dati, sulla verità.
Ci sono poche cose che non cambiano nella storia del mondo e una di queste, come diceva Hegel è che “Nulla al mondo è stato fatto senza il contributo della passione”.
E il buon giornalismo ha come motore propulsivo l’amore per la verità, facendosi portavoce dei fatti così come sono, senza esprimere giudizi, ma solo smascherando i mille bluff delle coperte carte in tavola della realtà. Il giornalismo ci fa giocare ad armi pari.
Possono cambiare gli uomini, i mezzi e la tecnologia con la quale esprimiamo il nostro comunicare. Ma il nocciolo della questione è e rimarrà sempre uno: la ricerca della verità.