Qual è il vero volto della violenza?
Quello del sangue vivido che macchia il volto di un bambino alla televisione? Quello mediatizzato che ci fa provare empatia per qualche secondo prima di tornare alle nostre occupazioni? Quello dei brutti ricordi d’infanzia?
Si tratta di un sentimento talmente normalizzato che non ci chiediamo mai quale sia la sua vera essenza.
Dominazione bestiale in assenza di leggi, comportamento umano, istinto spontaneo, كبت (repressione) in arabo. Le definizioni sono numerose ma tendono ad avere un punto in comune: la violenza è spesso e volentieri associata all’aspetto puramente fisico, che ci fa dimenticare la potenza della violenza simbolica, tanto impercettibile quanto possente.
La lotta dei gilets jaunes in Francia ha sollevato la questione dell’identificazione della violenza e della sua interpretazione. Che cos’è un cassonetto bruciato e qualche giorno di caos urbano rispetto ad un’intera fetta di popolazione che ha difficoltà ad arrivare a fine mese? Questa è la rivendicazione che ho letto sui volti dei manifestanti urlanti. Nel frattempo, alle mie orecchie arrivano i commenti di alcuni coetanei francesi: “Sono d’accordo con loro, ma stanno bloccando una città intera con una violenza inaudita”. E di tutte le banalità che riempivano i media del mondo intero, è stato proprio l’elemento inaudito ad aver preso per mano la mia attenzione per portarla in un campo di interrogativi. Quale violenza tocca indirettamente queste persone? E come è percepita?
«C’era l’emergere di un tipo di corpo che non vediamo mai e di parole che non sentiamo mai» ha commentato al New Yorker (https://www.newyorker.com/news/news-desk/to-exist-in-the-eyes-of-others-an-interview-with-the-novelist-edouard-louis-on-the-gilets-jaunes-movement) il giovane scrittore francese Edouard Louis a proposito delle manifestazioni nell’Esagono e dei loro protagonisti: una classe sociale improvvisamente in lotta contro il “presidente Rothschild”. Si tratta degli stessi corpi la cui sopravvivenza è sottovalutata dallo Stato per quanto riguarda le riforme popolari, ma la cui immagine non ha tardato a comparire sugli schermi televisivi di fianco alla parola violenza. Corpi che difficilmente attirano la nostra attenzione in modo positivo, perché le loro apparizioni mediatiche sono spesso affette da connotazioni negative.
D’altronde, come negare l’evidenza? Nel mio immaginario la violenza è indissolubilmente legata alla presenza dei cinque sensi: la vista del sangue, l’odore della paura, la sensazione dell’urto, il suono delle grida, la bocca asciutta. Come posso capire la violenza simbolica esercitata da una classe sociale a scapito di un’altra se non provo a mettermi nei loro panni? Come riconoscere la violenza di classe, basata sulla differenza di ricchezza?
Paradossalmente, ho dovuto ritrovarmi in Marocco per capirne la vera e propria portata. Mentre osservavo divertito un addetto ai parcheggi, riconoscibile dal suo gilet jaune, mi sono chiesto quale fosse l’impatto del colonialismo francese sulla società marocchina d’oggi. Una domanda è sorta spontanea: è possibile esercitare della violenza senza contatto fisico e a oltre sessant’anni di distanza?
La risposta (o piuttosto, altre domande) nel prossimo episodio.