Ci sono muri spessi di pietra a reggere questo tetto e a contenere il gelo d’inverno, il fresco d’estate. Non fa mai caldo qui, ma di mosche ce ne sono quasi sempre. Appena entri c’è un odore di antico, di vecchio, che poi è l’odore della polvere. Non è un odore che affascina, è un odore che non ha nulla di misterioso o inafferrabile. Sono mura che hanno visto crescere e morire almeno tre generazioni. Sono mura che si reggono solo più per inerzia, ma non sono stanche. Hanno la forza dei titani, così imponenti da sembrare immortali, ma per niente divini. Ci passavo le estati lì. Il mio rifugio in mezzo alla natura e alla campagna che si affacciava alla tangenziale. Ma chi la considerava quella, il mio mondo finiva al di qua del cancello. Il cortile era un tutt’uno di polvere e catene, che tenevano legate mucche e cani inselvatichiti. Era una natura al guinzaglio, la migliore che potessi mai immaginare, abituata alle mura sottili e sempre pulite della città. Passavo le mie giornate al sole, con un cappellino da maschio in testa, pantaloncini e una maglietta troppo stretta che non copriva completamente le rotondità ancora da bambina che mi preoccupavano. C’erano gli animali, e ogni estate dei cuccioli di conigli o di gattini, sempre nuovi. Ricordo il colore del grano appena tagliato e il suo odore appena imballato. Amavo stare sul trattore mentre lo zio sistemava balla dopo balla lì sopra. Cibo per i miei occhi e libertà per la mia anima, ancora così poco matura. Quelle distese di colori e di cielo non si dimenticano così facilmente. Rimangono in un angolo, e ti plasmano e creano dentro te un’ideale che all’occorrenza emerge e ti rassicura, contro ogni costruzione mentale che rende la vita adulta e cittadina così prevedibile e finalizzata. Si chiamano radici. Le mie sono quella paglia. La sento ancora sulla pelle, quando mi ci coricavo su: non bastava la coperta che mettevo sopra, continuava a pungere. E ricordo i piedi sporchi di terra e polvere alla fine di ogni giornata, quello sporco sano che si infilava tra i sandali trasparenti che andavano di moda e la mia pelle mai abbronzata. E poi la sera prima di dormire, dietro casa a pulirceli con sapone e acqua gelida, mentre la nonna ci raccontava storie di parenti lontani, dispersi in chissà quale foresta, in balia di probabili cannibali. Ricordo che disegnavo distesa su quella paglia imballata, e coloravo la mamma e il papà, facevo loro biglietti e cornicette. Non c’era tempo per dormire al sole, dovevamo riempirci gli occhi di quelle giornate. Ricordo che aiutavo la nonna ad innaffiare le belle di notte la sera, quando aprivano i loro calici alla luna che doveva ancora nascere. Quanti ne aveva di fiori. La aiutavo a rinchiudere le galline nel pollaio la sera e preparavo strani mangimi mettendoci di tutto dentro, convinta che mangiando quello avrebbero deposto uova d’oro. Quanto rideva lei poi, quando ogni tre secondi controllavo le uova, superando la mia paura per le galline. Amavo guardarli gli animali, ma loro non erano abituati a me. Così una volta per poco una mucca non mi incorna, sfuggita a quelle catene. Ero piccola, lei era nera e inferocita, mi veniva incontro impazzita, e solo quando mi accorsi che stava puntando me perché mia sorella mi gridava di spostarmi, corsi senza pensarci dentro casa. Solo dopo iniziai a tremare. Alla sera dava da mangiare anche ai conigli. Lei li teneva nelle gabbie, mentre io riempivo le ciotole con acqua e cibo. Non si fermava mai lei. Le si leggeva negli occhi l’entusiasmo di averci lì con lei, quando ci presentava alle sue amiche prima di andare a messa. Ora sono tutte morte. Non sapeva guidare lei, a malapena sapeva leggere e scrivere. La terza media era troppo per lei, nata in una povera, ma numerosa famiglia. Per di più era femmina lei. Si era sposata presto ed era andata a vivere con la famiglia di suo marito, sotto le grinfie di una suocera troppo severa per poter contraddire. Dicono che fosse cattiva e che nessuno fosse così dispiaciuto quando morì. Una vita d’inferno, passata sotto il segno della povertà e della rinuncia, abituata a non avere sogni, a sopportare la fatica, il cordoglio e a non confidarsi con nessuno. Si era procurata un cuore di cenere compressa, risultato di una vita in cui era stata forse costretta ad amare il giusto, mai a fare ciò che era realmente sentito. Una volta così immersa nella quotidianità e a garantire il minino indispensabile a tutti, ora radicata nel passato. Il risultato è la paura di tutto: serpenti, rimpianti, ospedali e morti, forse a causa di un peso sullo stomaco impronunciabile, sepolto e appena riemerso, e uno più recente, riconducibile ad una figlia che non le parla più per motivi sconosciuti, offese inconsapevoli arrecate, rendetevi conto, forse solo parole dette, a distruggere il residuo di leggerezza di una vecchia che non ha più niente a cui pensare se non ai pochi nipoti che non le sono negati, a un vecchio marito diverso dal giovane uomo sposato e al loro corredo funebre.

Invece con lui era diverso. Lui era l’autorità per tutti, ma da me si faceva facilmente governare. Lui era fatto di baffi bianchi all’ingiù, di cappelli di paglia, bestemmie e preghiere, vestiti vecchi e misteriose abilità. I grandi dicevano che sapeva curare i mali con strane arti passategli dalla madre in punto di morte. Io volevo vedere ogni volta che li compiva, ma non me lo permetteva, perché nessuno poteva. Quando aveva finito usciva dalla cantina con un sacchetto bianco pieno di cose che non ho mai saputo. Amavo aiutarlo a costruire corde, mangiatoie e trappole per topi. Ce n’erano tanti lì, nella stalla e nella casa. Era ingegnoso, calcolatore. Ma anche mezzo sordo e iniziava a dare i primi segni fisici di cedimento. Camminava con la canna, di li a qualche anno sarebbero diventate due, troppo umiliante la sedia a rotelle, meglio faticare. Ostentava un orgoglio irritante. Ricordo che da piccola capiva al volo solo la mia di voce. Gli raccontavo di tutte le storie che mi avevano raccontato, Cappuccetto Rosso o il Gatto con gli Stivali. Quando lui era bambino nessuno gliele aveva mai raccontate, né le aveva mai lette. Era cresciuto anche lui in mezzo ai sacrifici e alla povertà. Non era andato in guerra per una mano infortunata: non immagino la durezza che ne avrebbe ereditato, se la vita l’aveva già reso così rigido. Figlio ennesimo di mille fratelli, aveva litigato con tutti e non parlava più con nessuno. Dopo la morte della madre, unico comun denominatore, se ne andarono via tutti, ed era l’unico rimasto a gestire la dimora dai muri di pietra, con sua moglie e i suoi quattro figli. Avevano litigato per l’eredità o per la probabile illegittima origine del seme che l’aveva generato. Nessuno dei suoi figli seppe la verità, e mai nessuno la saprà. Il rancore verso quei fratelli forse non di sangue era radicato a tal punto da ritenere inconcepibile ogni moto di commozione pubblica provocata dalla morte di uno di essi, cosicchè non si concesse di piangere in pubblico quando capitò, né andò al funerale. Ma quel giorno lo spiai inconsapevolmente dalla porta socchiusa, e stupì se stesso, nel vedersi piangere in solitudine. Viveva in un mondo in cui le offese non andavano perdonate e le idee non dovevano essere cambiate. Dove piangere è segno di debolezza, e l’unico modo di far tacere due figlie che litigano è mostrare loro la cintura. Un mondo fatto di parole d’onore e preghiere. Si legge ancora negli occhi la stanchezza di tutto quell’odio, ma anche l’orgoglio di continuare ad odiare. Cinquant’anni di odio non possono venire cancellati nemmeno dalla morte. Tanto che sul suo necrologio non verranno ricordati i fratelli, e verranno cacciati di casa se si presenteranno alla porta. Per un figlio rifiutato, non ci può essere che il rifiuto verso quei fratelli che non l’hanno accettato. Odia a tal punto da non cambiare idea nemmeno in punto di morte, ma la teme, perché si porterà con sé il cordoglio del rifiuto, dell’odio, dell’incertezza e di quel primo abbandono. Ancora in vita prepara tutto, e cammuffa più di lei i dolori di una vita fatta di cicatrici. È un peso che lei non riesce fino in fondo a nascondere, gli occhiali sono ancora troppo puliti, e lui, credendo di nasconderlo, dietro una maschera fatta di occhi orgogliosi e ormai stanchi e sorrisi di denti finti.

La leggerezza di quelle estati trascorse tra le braccia della nonna e della paglia svanirono con l’aumentare della mia altezza, del mio peso e della mia taglia di reggiseno. Presto crebbi, senza rendermene conto, e pian piano smisi di desiderare cielo e aria pura. Le estati le preferivo passare con gli amici, al mare, in campeggio. Iniziai a preferire una natura diversa. Iniziai a vedere le cose con occhi diversi. Il nonno non era un anziano da ascoltare con rispetto e riverenza, ma solo un vecchio sordo dalla palpebra cadente, senza denti, noioso, solito a raccontare costantemente eventi ormai secolari, che non interessano più a nessuno, perché nessuno può farne tesoro dell’esperienza altrui. Invece lei non era più la nonna che accudiva la casa e rideva per i suoi nipoti: era una vecchia che non si lavava, sempre disposta a lamentarsi dei suoi male che non si preoccupava di curarsi, con l’ossessione per i sensi di colpa e i medici. È triste pensare come crescendo, iniziai a notare questi dettagli, di come inizia a pensare questi fatti come a qualcosa di negativo e criticabile, di sbagliato e poco salutare. Forse la realtà era sempre stata quella, ma cosa credete che siano agli occhi di un bambino i suoi nonni, se non eroi di un’epoca passata? Al suo sguardo innocente qualsiasi realtà, era vista con stupore e meraviglia. L’amarezza è in questa crescita forzata, che costringe lo sguardo infantile a cambiare angolazione, e ad acquisire la stessa di quegli adulti che hanno dimenticato quanto stanno bene i bambini nel loro mondo senza pregiudizi, lamentele e imposizioni, fatto di giochi, di fantasia e semplicità. Oppure i nonni erano davvero cambiati. La realtà era davvero diversa da un decennio fa. E qui notare come sia ingiusto continuare a crescere, e senza poterlo controllare, invecchiare. O forse invecchiare così. Quasi come se crescere fosse una gita in montagna. All’andata è tutta in salita, la si deve conquistare la vetta, e appena la si raggiunge quanta soddisfazione. Ma quello è il culmine, da lì in poi sarà tutta discesa: non dovrai più faticare, ma alla fine ti ritroverai al punto di partenza. Ma con tutta la fatica del viaggio. Invecchiare dimenticandosi di aver vissuto, portandosi dietro solo le paure e i rimpianti è la peggior condanna degli uomini che hanno la colpa di aver vissuto circostanze e fatti avversi allo sviluppo di una vita sana, e di aver incontrato persone che le hanno represse, impedendogli di preservarsi una vita rigogliosa. La mia infanzia trascorsa in quegli stessi muri che hanno cullato disgrazie, non fece altro che sviluppare un senso di colpa, per le estati felici e spensierate che trascorsi lì, nel cortile, in bicicletta in mezzo alla polvere e all’erba, così in contrasto con le dure condizioni nelle quali i nonni si erano dovuti sforzare di crescere e diventare adulti. Un senso di colpa per una spensieratezza non meritata, non perché effettivamente colpevole di qualcosa, ma anzi proprio perché senza cordoglio. Come potevo sapere dei litigi, delle bugie, dei retroscena che si nascondevano negli album delle foto di famiglia nascosti in qualche cassetto nella stanza dove non si poteva andare. Solo più tardi, dopo i tempi felici, sviluppai questo illogico senso di colpa per qualcosa che non mi era capitato perché forse tutto era già capitato a loro, ai miei nonni, ai miei genitori. Niente doveva essere scontato apparentemente da me, a otto anni, mentre ridevo così ingenua delle nuvole e delle matite, ignara che la vita un tempo doveva essere stata davvero difficile.
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Ma di lì a poco, successe qualcosa che spostò i miei pensieri dalle felici estati passate in cortile, e successe sempre d’estate, qualcosa la cui entità rimane misteriosa, ma mi cambiò. Sono rivoluzioni silenziose quelle che fanno prendere pieghe sbagliate all’anima, hanno origini fuori da essa. Sono invisibili, ma solo occhi esperti sanno riconoscerle, e quindi alla prima volta è facile esserne colpiti, ma sono pochi gli animi sensibili disposti ad accoglierle con le armi giuste da saperle combattere. Sono condizioni che improvvisamente si fanno ostili alla vita e alla crescita, nonostante si abbiano soldi, una casa, dei vestiti, del cibo, due genitori, una famiglia, un’ottima media a scuola, amici apparentemente stabili, un cuore apparentemente che batte. È una mancanza non materiale a cui non si può dar nome, e capisce solo chi sente. E ha origine radicate al principio, forse i segnali erano precedenti, ma nessuno li aveva riconosciuti. Si poteva sapere prima, ma l’attenzione non era stata adeguata. E l’origine risale alla paglia e ai trattori, ai gattini e a quei vestiti troppo corti. L’inquietudine che esiste da sempre, ma esplode solo poi.