Jonathan Safran Foer illumina, davvero, ogni cosa, con il suo brillante e spassoso romanzo d’esordio, Ogni cosa è illuminata.
Si tratta, in realtà, di un romanzo non-romanzo, perché l’autore restituisce al lettore un abile intarsio di generi letterari: la forma epistolare e la narrazione vera e propria, infatti, si alternano per dare vita a un libro unico nel suo genere. Lo scarto rispetto al romanzo lineare e tradizionale non è dovuto, però, solamente alla forma: la vera innovazione introdotta da Foer riguarda anche la lingua impiegata nella narrazione; l’autore aderisce al principio del realismo e, come i grandi narratori, flette la lingua in modo che risponda a tale principio. Per comprendere quale sia questa “neolingua” inventata dal romanziere, occorre prima ripercorrere brevemente la trama – alquanto complicata – del libro.
Alex, un giovane ucraino effervescente e fuori da ogni schema, viene assoldato dalla propria famiglia, che gestisce una stramba agenzia di viaggi, come traduttore per un giovane cliente americano, Jonathan, un ragazzo compìto e pacato, il quale intende compiere un viaggio in Ucraina alla ricerca delle proprie radici. E quindi, Alex e il nonno, accompagnati dalla bizzarra cagnetta-guida di quest’ultimo – che si finge cieco, ma in realtà non lo è –, partono per incontrare il ragazzo americano e accompagnarlo in giro per il Paese, alla volta di Trachimbrod, il luogo in cui il nonno di Jonathan ha vissuto la propria giovinezza e da cui è riuscito a fuggire, durante le persecuzioni razziali, grazie alla figura quasi mitologica di una donna, Augustine; lo scopo del viaggio è, dunque, trovare e conoscere l’ormai anziana Augustine. Per queste ragioni, Ogni cosa è illuminata è anche un libro sull’amicizia, nei suoi molteplici volti: l’amicizia intercontinentale, tra l’ucraino e l’americano, e quella intergenerazionale, tra i due e il nonno.
Come si anticipava, la narrazione è tutt’altro che canonica: Foer finge che i due protagonisti, dopo aver terminato il loro viaggio ricco di avventure strampalate (ma avviato per un motivo nobile e serio), inizino a scrivere un romanzo ciascuno. Jonathan scrive, in uno stile limpido e impeccabile e fingendosi narratore onnisciente, ciò che ha scoperto a riguardo del proprio passato; mentre Alex, in qualità di narratore interno, racconta l’avventura trascorsa insieme al suo nuovo amico d’oltreoceano; dunque, alcuni capitoli del libro corrispondono alle loro due narrazioni. A inframmezzare i romanzi dei due ragazzi ci sono le lettere che Jonathan e Alex si scambiano; appena finiscono di scrivere una sezione del romanzo, infatti, la inviano all’altro, per chiedere consigli e riflettere sullo stile. Ogni cosa è illuminata offre, quindi, un’ottima occasione per soffermarsi sugli espedienti propri dell’arte del narrare e, in primis, sul confine labile tra la realtà e la sua alterazione.
Ciò che rende dirompente e geniale il libro è proprio il pastiche di generi letterari, stili e lingue; tornando, nello specifico, alla questione della lingua, Foer inventa un inglese sgangherato – l’inglese parlato da un ragazzo ucraino che ha appreso la lingua solamente a scuola e che, quindi, non la conosce affatto – per rendere realistiche le sezioni in cui la voce narrante è quella di Alex. Perciò il titolo, parafrasato da questa lingua pittoresca, significa che “ogni cosa è stata chiarita”: grazie al viaggio, si è fatta luce sul passato di Jonathan. Ovviamente, l’effetto ricercato e ottenuto tramite questi espedienti (retorici, stilistici e linguistici) è di alleggerire e rendere anche divertente un romanzo che tratta, di fatto, dell’antisemitismo.
Leggere Ogni cosa è illuminata permette, infine, di esplorare le tradizioni pressoché sconosciute di un Paese come l’Ucraina, ma anche le usanze, il gergo e l’organizzazione tipici della civiltà ebraica. Tutto ciò, ridendo di gusto.