Non sono mai stata un’appassionata di letteratura giapponese; non la conoscevo e la conosco poco tuttora, ma quest’anno sto imparando ad apprezzarla. Il mio occhio critico sarà dunque l’occhio di chi si sta avvicinando a questo mondo, e non vuole formulare giudizi perentori e definitivi, bensì fornire una linea di lettura e uno spunto per chi si voglia avventurare nella lettura di testi giapponesi odierni.
Poco tempo fa ho ricevuto un libro di Haruki Murakami, dal titolo L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio (2013, edizione italiana 2014). Ho inteso il regalo come una sorta di segno del destino, come se finalmente dovessi provare a dedicarmi a questo tipo di letteratura. Ho iniziato a leggerlo e presto mi sono ritrovata in un universo del tutto nuovo: il mondo giapponese di Murakami è essenzialmente scandito dalla lentezza e dalla tranquillità di ogni gesto. Il protagonista, Tazaki Tsukuru appunto, è molto introspettivo, ragiona per ben sedici anni sulla causa dello smembramento del gruppo di amici perfetto di cui faceva parte ai tempi del liceo a Nagoya. Solo lui, l’incolore (in quanto tutti gli altri membri di quel gruppo, due maschi e due femmine, presentavano il nome di un colore all’interno del proprio cognome) si interroga senza pace sul perché i suoi amici hanno smesso di contattarlo alla fine di un’estate. Quell’allontanamento ha causato in Tazaki Tsukuru un vuoto enorme, e gli ha provocato una depressione profonda e un inevitabile avvicinamento alla morte. Nel romanzo si susseguono anche descrizioni di sogni intensi del protagonista, riguardanti soprattutto le due ragazze del gruppo. Sedici anni dopo, Tazaki decide finalmente di agire e con l’aiuto della sua nuova amica-amante Sara riesce a parlare nuovamente con tre dei quattro amici, giungendo fino in Finlandia e scoprendo in conclusione cos’era successo quella fatidica estate. Il pellegrinaggio del protagonista è sia spaziale sia psichico, ed è necessario dunque per ricercare la verità, oltre che per colmare il desiderio intenso di far pace con un passato che ha modificato completamente l’esistenza di Tazaki. Un passato idilliaco, caratterizzato da quei legami d’amicizia così intensi che capitano forse una sola volta nella vita. La stessa scrittura di Murakami, per quanto concerne questa storia, è volta ad una dimensione tutta mentale e a tratti onirica, con frasi sostanzialmente brevi e cadenzate dall’intensa punteggiatura. Senza dubbio, l’opera porta a riflettere sul valore dell’amicizia e sulle conseguenze devastanti che essa può avere sulla nostra esistenza.
Dopo aver concluso questo libro, ho deciso di proseguire il mio percorso nella letteratura giapponese e dedicarmi invece alla nota scrittrice Banana Yoshimoto: Amrita (1994, edizione italiana 1997) resta uno dei suoi romanzi più celebri, ed anche in questo caso ho avuto il piacere di avventurarmi nel delicato mondo giapponese, osservato però da un punto di vista femminile. Sakumi è una ragazza ventottenne che trascorre una vita pacifica nel ricordo della sorella minore morta in un incidente stradale mentre guidava sotto effetto di alcool e barbiturici. Tuttavia, un giorno Sakumi cade scendendo da una scalinata e batte forte la testa: da qui la sua esistenza cambierà per sempre, in quanto cercherà di recuperare a fatica la memoria persa dopo l’incidente ma nello stesso tempo acquisirà una sensibilità straordinaria, che la porterà ad entrare in contatto con il sovrannaturale (sensibilità che sviluppa anche il suo fratellastro più piccolo, Yoshio, una specie di bambino prodigio). Il romanzo si delinea lungo i viaggi che compie Sakumi in compagnia del suo fratellino e del suo compagno, Ryuichiro; viaggi che le permettono di comprendere ed indagare meglio la sua nuova natura di “morta a metà”, ma nello stesso tempo di “rinata”. È una condizione che le regala una nuova sensibilità verso le persone, i sogni, i ricordi. In effetti, il lettore stesso è portato inevitabilmente a riflettere sui ricordi e sulle immense potenzialità che essi hanno sulla nostra mente. E se, come scrive la stessa Sakumi in una lettera a Ryuichiro, «vivere è dimenticare», questa storia insegna che bisogna tenersi stretti ogni attimo, ringraziare di essere vivi in quel momento, perché ogni istante è diverso dall’altro, ogni tramonto è differente e produrrà sempre una nuova sfumatura di malinconia:
«Mentre il tramonto si allontanava progressivamente, la sensazione di un’indicibile difficoltà a separarsene, e quella rinfrescante della gratitudine si fondevano in modo struggente. Per il resto delle nostre vite, anche se ci fosse stato un altro giorno come questo, mai più la condizione del cielo, la forma delle nuvole, il colore dell’aria, la temperatura del vento si sarebbero ripetuti allo stesso modo».
Con questo intenso passaggio di Amrita concludo ribadendo il mio approccio da principiante riguardo a questi due grandi autori; spero tuttavia di aver invogliato alla lettura dei loro romanzi, opere delicate e semplici, che tuttavia sanno toccare con abilità e senza mai annoiare i temi fondamentali della nostra vita: la morte, la memoria, l’aldilà, l’amicizia, l’amore.