È da poco finito un lungo periodo di campagna elettorale, fatto di molte parole e molte promesse. L’atteggiamento dei più è sfiduciato, come se in fondo fosse sempre implicita la verità di una promessa irrealizzabile. Si potrebbe discutere a lungo sulla poca credibilità di molti politici e su quanto tutta la sfiducia sia in realtà frutto di anni passati a credere davvero in alcuni ideali e personalità. Il malcontento di certo alberga ovunque ed è difficile non cedere alla retorica popolare, lasciandosi sopraffare. Sarebbe interessante, però, fare un passo in profondità, per accorgersi di quel che in fondo emerge di più radicale.
Due sono gli scenari che definiscono le diverse posizioni. Il primo vede protagonisti due uomini, Yasser Abdallah Salameh e Toni Hanna: il primo, un uomo palestinese – profugo – capocantiere molto scrupoloso, il secondo, un libanese militante nella destra cristiana. Sono questi i due protagonisti del film L’insulto, che si fa portavoce di quella profondità necessaria da ricercare per non cedere al ritornello delle polemiche sterili. Un impianto idraulico, una parola di troppo sono i soli ingredienti sufficienti per portare in tribunale i due uomini e coinvolgere nello scontro l’intero paese. Eppure, non si tratta soltanto della fervida fantasia più o meno ancorata alla realtà di un brillante regista. Così infatti Ziad Doueiri descrive la genesi del film: «L’idea arrivò da un evento molto simile a quello scatenante del film. Un incidente stupido tra me e un operaio, degenerato all’improvviso in qualcosa di più grande, doloroso. Lì è finita in uno scambio di insulti e parolacce, ma rimasi ossessionato dall’ipotesi che la lite potesse facilmente divenire un affare nazionale se avessimo continuato su quei binari. Ne parlai con mia moglie, ora ex, che era presente e contribuì a far sì che tornassimo a più miti consigli. Mi scusai col suo capo per il mio comportamento, ma il boss lo licenziò. Allora presi le sue difese: da nemici divenimmo alleati e allora capii. Capii subito che era la premessa, la miccia di qualcosa di importante». In gioco c’è dunque molto di più persino di un caso appartenente a un solo Paese, in gioco c’è la forza distruttiva che appartiene a ogni ideologia e che offusca la vista, al punto da rendere impossibile la vista di colui che si trova proprio di fronte ai nostri occhi. In contesti, situazioni e dinamiche diverse non è di certo difficile correre con il pensiero alla campagna elettorale appena conclusa. Duri sono stati i toni, le polemiche e forti le tensioni. Indicativa a riguardo è l’interpretazione dello storico De Felice che distingue il fascismo storico, morto con il duce a piazzale Loreto, dall’eredità psicologica che il fascismo ha lasciato nella memoria e nella storia degli italiani. Esempio più evidente è l’atteggiamento in politica, dove il nemico è oggettivo e il confronto è utile solamente se finalizzato all’annientamento.
Il secondo scenario vede in campo due uomini anziani, con il peso di molti anni sulle spalle e un gran bagaglio da offrire, il cui incontro è un esempio evidente e chiaro che è possibile oltrepassare il muro dell’ideologia per incontrare e tornare a vedere chi si ha di fronte. Si tratta di Eugenio Scalfari e Papa Francesco. Anche in questo caso è necessaria un’attenta capacità osservativa e un affondo in profondità per comprendere bene i termini in questione. Infatti, tante sono le critiche superficiali di coloro che si limitano a accusare Bergoglio di aver venduto parte della sua identità a chi per tanti anni ha rappresentato l’emblema del laicismo. È necessario scovare, con un cauto uso della ragione, le fondamenta di questo rapporto, apparentemente così anomalo. È davvero possibile mantenere la propria identità in un confronto così eterogeneo? In un articolo de La Stampa dell’estate scorsa Massimo Borghesi richiamava una fessura, uno spiraglio che consentirebbe il dialogo così schietto tra i due. Non si tratta di una conseguenza del proselitismo o della conversione di una tra le due posizioni: è Scalfari stesso a definirsi ateo. «Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia». Si tratta di una posizione umana profondamente onesta, che riconosce una ricerca, costante e insistente, verso la verità, qualunque siano i mezzi che le storie personali hanno messo a disposizione di ognuno. Borghesi nel suo articolo definisce l’anima religiosa di Scalfari. Non trovo accezione migliore per questa espressione se non nell’anelito verso la verità, non verso quell’idea più o meno chiara che ognuno si costruisce della sua propria verità. In un articolo del 16 luglio, “La politica e il lascito perduto della modernità”, Scalfari ricorda una figura a lui cara, Eugenio Montale, citandone alcuni versi:
Oh
l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Il varco descritto da Montale è la fessura citata da Borghesi: quello spiraglio che consente di accogliere l’altro come dono per sé e rompere l’uniformità intatta del proprio pensiero.
Molto indicative sono le parole di Scalfari a conclusione della sua intervista al Papa l’8 luglio: «Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l’ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle Guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori. La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d’aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. “L’aiuto io” dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando il braccio e la mano mentre io – lo confesso – ho il viso bagnato di lacrime di commozione».
Sono ricolme di vita queste parole, non dense dell’ennesima teoria sul valore della relazione e dello scambio e quindi infinitamente preziose. Non stupisce leggere i titoli dei giornali sull’ultima intervista tra i due; penso sia solamente l’ennesima conferma che non si tratta di un legame sovrumano o impossibile, ma profondamente radicato nell’umano stesso, fatto anche di limiti, incomprensioni e diversità. Nulla che possa escludere però, in questo caso, un rapporto sincero e autentico.