Quasi 95 anni di vita e passi lenti come i ricordi che sbiadiscono. Non sa cosa ha mangiato a pranzo ma gli anni della guerra sono scanditi da date e racconti puntali e precisi.
Il frigo non rende giustizia al personaggio: qualche yogurt, tanto latte e un Bisolvon sciroppo presente tutto l’anno nello scompartimento più in alto del frigo per prevenzione: da bambino ho preso una brutta bronchite e mia madre mi ha mandato ad Andora per guarire con l’aria di mare. Ma i pranzi sono sempre fuori casa con gli amici. La sera, un po’ di latte con i biscotti dopo aver preparato la cena al gatto, che si chiama Cip o Ciop, non l’ho mai capito, teoricamente Ciop è morto qualche anno fa, lui è Cip.
Nasco nel 1923 – e subito capisco che non sarebbe bastato un pomeriggio di ascolto.
Nel 1925 mio padre morì in Francia dove lavorava. Io ero con mia madre, tutto quello che avevo era lei. Nel ’27 ci siamo trasferiti da Roata Lerda a via Roma. Mia mamma lavava i panni per gli alberghi di via Armando Diaz, faceva la “lessìa” con dei grandi catini di legno, la cenere e l’acqua calda. Per lei era più comodo vivere a Cuneo perché si spostava tutti i giorni a piedi da Roata Lerda. Non so come mai non usasse la bicicletta. È venuta anche mia nonna a vivere con noi. La casa era formata da una grande stanza con una stufa al centro e tre letti, uno più piccolo per me. Un giorno stavo preparando il riso per pranzo e credevo che dovesse diventare rosso con la cottura, non sapevo si dovesse aggiungere il sugo, avevo solo 4 anni e lo avevo sempre visto al pomodoro. Vedendo che rimaneva bianco, mi sono messo a piangere a dirotto e ho spiegato a mio nonna la situazione. È stata la prima volta in cui l’ho vista ridere.
Dopo la morte della nonna nel ’29, la mamma chiede aiuto al Municipio perché non riusciva a mantenerlo. Le viene concesso di mandarlo nell’orfanotrofio di via Amedeo Rossi. Un periodo difficile, segnato dalla lontananza dalla madre e dai vermi che non passavano.
I ragazzi più grandi uscivano sempre la sera calandosi dalle finestre con delle corde. Io vedevo tutto perché la mia camera dava sul corridoio dove c’erano quelle finestre. Il direttore un giorno mi ha chiesto di dirgli da dove scappavano i ragazzi e in quale momento della serata. Io ho fatto finta di non sapere nulla. Gli ho detto che avevo paura e mi coprivo la faccia con le coperte. Allora il direttore come punizione per il mio silenzio mi mandò da un barbiere che mi rasò i capelli. Appena tornato in orfanotrofio, tutti i ragazzi più grandi vennero a ringraziarmi e a dirmi di rivolgermi a loro se avessi avuto bisogno di qualcosa.
Eugenio – Genio per gli amici – voleva studiare a tutti i costi. Dopo l’orfanotrofio si trasferisce nel seminario dei padri della Consolata di Favria Canavese. Nel 1942 torna a Cuneo per conseguire l’esame del ginnasio del liceo classico e scopre di dover partire per la leva obbligatoria. Il 10 settembre finisce con gli esami e parte per fare il soldato.
Pensa che per dare l’esame mi sono dovuto iscrivere al Partito Fascista. Senza la tessera non mi avrebbero fatto sostenere l’esame e io cosa dovevo fare?
Il pomeriggio stesso dell’esame viene assegnato al 2° battaglione Alpini di Borgo.
A gennaio del ’43 sarei dovuto partire per la Russia perché toccava alla classe del 1923. Ma è arrivato l’ordine di prepararci per un’altra destinazione, vista la disfatta nel freddo della Russia. Il 23 febbraio 1943 siamo saliti in tradotta con destinazione Gorizia. Da lì ci saremmo poi spostati in Slovenia e in Iugoslavia.
Resta a cavallo tra i due paesi fino a fine agosto, quando il suo reggimento è inviato vicino a Trento. È lì che si trovava l’8 settembre, il giorno dell’armistizio e del caos, quando lui e i suoi compagni hanno ascoltato alla radio durante la libera uscita serale il proclama di Badoglio. Nessuno sapeva più cosa fare, dove andare.
Ci avevano detto di radunarci al campo base e di aspettare l’arrivo dei tedeschi, che probabilmente avrebbero allestito un campo di prigionia per noi. Io sono tornato all’accampamento, ho cercato il mio zaino che era già stato tagliato con la baionetta da qualcuno: avevo dentro dei libri di grammatica latina e un dizionario, che ho trovato per terra rovinati. Sono andato nel magazzino, ho preso due paia di calze nuove e mi sono incamminato per tornare a casa.
Durante il viaggio si libera degli abiti militari e li scambia con i vestiti delle persone che vivevano nelle case incontrate lungo il percorso. Si uniscono a lui alcuni compagni di viaggio, con cui arriva fino a Gorgonzola, dove decide di salire sul treno direttissimo Venezia-Milano, trovando posto in prima classe, in un treno completamente affollato di sbandati che facevano ritorno a casa.
Ad un certo punto il treno si ferma e salgono i tedeschi che stavano cercando noi sbandati. Una signora, seduta vicino a un suo amico, mi dice di infilarmi sotto il loro sedile: loro si sarebbero messi i giubbotti sulle gambe in modo da nascondermi. Il piano funziona: sale un comandante delle SS, io lo vedevo da uno spiraglio, chiede ai passeggeri dove siano diretti e se ne va. Alla stazione di Milano continuo a seguire la signora, che mi porta con sé fino a Biella, dove abitava. Una volta giunto lì, ricordo solo di aver dormito per un giorno intero. Quando mi sono svegliato, una ragazza stava medicando i miei piedi, pieni di piaghe dovuti ai tre o quattro giorni di cammino continuo. Poi mi hanno dato abiti nuovi, una cartella con dei libri scolastici ed un biglietto del treno per Cuneo. Dopo la guerra sono tornato a Biella con mia moglie per cercare quella signora e ringraziarla per il suo aiuto, ma non sono stato capace di ritrovare la casa. E questo mi rincresce ancora oggi.
Dopo il ritorno a Cuneo dalla mamma e un periodo di lavoro presso la Stipel, matura la scelta di prendere la via delle montagne insieme ai partigiani. È una mattina di gennaio del ’44 quando decide con un amico di andare a piedi fino a Valgrana, dove si unisce ad un gruppo di circa sessanta partigiani. Qualche giorno dopo assiste e prende parte all’eccidio di Valgrana, ma si mette in salvo con il suo gruppo ritirandosi verso Cervasca. Il suo comandante era stato ferito alla gamba da un proiettile di rimbalzo quindi si fermano per circa un mese in una borgata di case abbandonate sopra Vignolo.
Torna per qualche mese a Cuneo ma, dopo esser stato catturato dai repubblichini, scappa e trova nuovamente rifugio tra i monti, questa volta in Valle Stura, dove rimane fino alla fine della guerra. A questa parte della sua Resistenza appartengono i ricordi più dolorosi, accompagnati da una voce spezzata e qualche lacrima che riga il viso stanco.
Eravamo oltre il colle della Lombarda, sul lato francese delle montagne. Attraverso la strada e vedo un gruppo di nove tedeschi dirigersi verso di noi, seduti sui muli e pieni di armi. Io subito grido: Angelo, ci sono i tedeschi, scappa! Loro ci vedono e iniziano a spararci addosso. Io, il mio amico Angelo e il brigadiere dei carabinieri ci siamo nascosti in un canale dove eravamo protetti dalle raffiche dei mitra tedeschi. Siamo saliti di corsa fino al distaccamento dove c’era una mitragliatrice Breda con uno di guardia che però non si era reso contro dell’attacco e non aveva aperto il fuoco. Io e il brigadiere abbiamo preso l’arma e ci siamo spostati nel vallone ma appena ci siamo fermati i tedeschi non c’erano più.
Mi racconta dei compagni morti e del ferito caricato su un camion insieme ai cadaveri e trasportato a Vinadio.
I due ragazzi meridionali avevano 19 anni. Uno dei due quel giorno avrebbe dovuto rimanere in punizione legato al palo al distaccamento ma il comandante gli ha detto di scendere in città con noi. Avevano con sé un mitra cecoslovacco con un piccolo difetto: se la piastrina dei proiettili non era perfettamente diritta, si inceppava. Così deve essergli successo e i tedeschi li hanno individuati: li abbiamo trovati con due buchi enormi nella schiena. Gli altri due ragazzi invece avevano dei colpi di proiettile nel petto, sparati a bruciapelo dai tedeschi che hanno usato le loro stesse pistole.
Il peso di questi racconti mi porta a pensare alla spensieratezza della mia vita.
Non ho mai dovuto interrompere gli studi per il servizio militare, non ho mai dovuto smettere di inseguire i miei obiettivi per il rischio di essere imprigionata, non ho mai dovuto camminare per quattro giorni di fila per non essere catturata dai nemici, non ho mai neanche avuto nemici. Non ho mai raccolto i cadaveri di quattro miei amici, non ho mai dovuto sparare ad un essere umano.
E non è tanto l’ascoltare questi ricordi faticosi a farmi male – qualsiasi racconto di un’esperienza di dolore genera empatia e condivisione del peso – quanto più il pensiero che siano ancora eventi quotidiani per migliaia di ragazze e ragazzi nati dalla parte sbagliata del Mediterraneo, vissuti in questo stesso momento in cui io respiro, in questo preciso istante in cui tu stai leggendo.