Nel 1997, quattro anni prima di morire, Lalla Romano pubblica il “romanzo non-romanzo” In vacanza col buon samaritano, riedito nel suo ventennale da Einaudi e frutto di quello che Giulio Ferroni chiama lo “stile tardo” dell’autrice, uno stile dominato dal vuoto, dall’assenza, in cui il linguaggio viene privato di ogni orpello per recuperare la propria essenzialità.
Il “buon samaritano” del titolo è l’immagine da cui scaturisce il libro e che diventa il suo centro gravitazionale; si tratta, certamente, di una figura cristiana, ma filtrata attraverso le opere di Rembrandt: «Quando dicevo “buon samaritano” […] rivedevo […] due o più incisioni di Rembrandt. Un uomo, un orientale, visto di spalle, sta caricando sulla sua cavalcatura un uomo inerte, svenuto», scrive l’autrice.
Come emerge dalla lettura dei brevissimi capitoli, raccolti in sezioni, il “buon samaritano” è sintesi di umiltà, umanità, compassione, pazienza, è colui che «ama l’uomo sofferente, e ne ha cura: signorilmente»: è Antonio, che si prende cura di Lalla; è Luciana, che la aiuta nella sua ricerca angosciosa; è anche Frieda, la moglie di Alessio; ed è soprattutto quest’ultimo, lo zio Alessio, un prete che si sveste dell’abito ecclesiastico per potersi sposare e il cui ricordo attrae misteriosamente la voce narrante e protagonista.
La vacanza è proprio un’incursione nella vita dello zio, morto di una malattia indicibile contratta al fronte; Lalla ne ricostruisce l’esistenza ripercorrendo i suoi luoghi – primo su tutti Bordighera –, conoscendo le persone che gli sono state accanto, ma anche osservando le fotografie e le cartoline offertegli da Luciana.
Uno dei traits d’union del libro è costituito dalla presenza ricorsiva della pittura, altra grande vocazione della scrittrice: non c’è solo Rembrandt, ma anche Friedrich von Kleudgen, e molti altri quadri senza nome, pregni di significato per chi scrive. Il vero e proprio collante che conferisce uniformità all’opera è, però, il suo carattere meditativo: la narratrice riflette, spesso laconicamente, sui vari aspetti dell’esistenza e sui propri affetti, durante quella pausa dalla consuetudine che è la vacanza.
In vacanza col buon samaritano è dunque un diario diseguale, reticente, pieno di buchi narrativi, privo di unità temporale (la “vacanza” è, infatti, la somma di più vacanze, di diversi intervalli di tempo, anche distanti tra loro) in cui vengono isolati e offerti al lettore soltanto i momenti di scavo interiore, per ritrovare ciò che è perduto.