Ci sono alcune parole che ogni giorno usiamo ripetutamente, ma siamo sicuri di conoscerne il significato vero e proprio? Oppure non ci siamo mai posti il problema?

Non sono sicuramente io la persona adatta a parlare di linguistica, semantica o etimologia. D’altronde non vogliatemene, studio economia. Eppure ho incontrato alcuni uomini che con il loro modo di stare nella vita mi hanno sorpreso. I loro occhi parlavano e, molto spesso, anche le loro poche parole mai scontate sapevano sussurrare a una verità che scaldava l’anima.

Dietro tutto questo portavano dei segreti, dei significati più profondi associati a termini spesso inflazionati, ma forse solo da gustare con un attimo di calma in più. Non da perderci tutto il giorno sopra, semplicemente da non dare più per scontati.

Le cinque parole che mi hanno toccato di più:

ACCETTARE: ricevere qualcosa con pieno consenso. Ricevere con gradimento.

Ecco, “con pieno consenso” proprio non andava giù nel mio modo di pensare. Ho sempre creduto che accettare significasse rassegnarsi. Ovvero abbandonarsi alla propria impotenza e crogiolarsi nel proprio “essere sfigato”, quel “mai una gioia” che va tanto di moda.

Eppure, scrutando a fondo il verbo accettare, c’è ben altro dietro questa finta apparenza che tanto soddisfa il piangersi addosso. Allora accettare che qualcosa vada storto, che non vada secondo i propri piani, come può risultare gradevole?

Non so rispondere a questa domanda. Sicuramente a volte non è piacevole l’atto di accettare, ma il vivere dopo aver accettato è una vera e propria sensazione di leggerezza, priva di rancore, colma di speranza.

INUTILE: che non dà alcun vantaggio.

Inutile è la negazione di utile, quindi ciò che è inutile non genera utile. Non provoca alcun ritorno, ma allora chi me lo fa fare?

Anche a questo non so trovare risposta, però mi piace pensare che inutile vada a braccetto con accettare. In effetti la natura stessa ci chiama all’inutilità: una mela matura che cade a terra per poi marcire in un prato di campagna a chi è utile? Nè al contadino che non la può vendere né al bambino che si diverte a rubare il frutto insieme agli amichetti nel campo del vicino; ormai è marcia, dopo tutta l’adrenalina e la paura passate per non essere scoperti durante il furto neanche può essere gustata. Nonostante questo, ogni anno quell’albero ci dona il suo frutto senza che nessuno glielo chieda e senza averne ritorno: una mela inutile che è dono gratuito o, per meglio dire, che è compimento necessario per quel melo. Lo possiamo immaginare un melo che non produce mele?

E così, allo stesso modo, durante le nostre giornate, quante cose accadono e non sappiamo da dove vengano? Quante cose dobbiamo fare e non generano utile ma chiedono la capacità di passare un inverno nel nostro cuore per poi fiorire?

Così è l’inutile: gratuito, non chiede nulla in cambio. A volte incompreso, ma necessario per poter far fiorire i talenti di ognuno.

Chissà che questo inutile non sia davvero da accettare

CATTIVO: di persona, insensibile o maldisposta verso sofferenze o fastidi altrui, capace anzi di rallegrarsene o addirittura di provocarli.

Il temine cattivo etimologicamente deriva dal latino captivus, ovvero nato in cattività: colui che non ha genitore, non sa di chi essere figlio. Può apparire un po’ strana la cosa, ma quante volte anche noi che non ci riteniamo cattivi siamo scontrosi in famiglia perché abbiamo qualcosa che ci turba? Oppure assumiamo un atteggiamento sgarbato nei confronti di una persona al solo fine di farla stare male quasi come fosse una vendetta? Per esempio dietro un commento ambiguo, ma tagliente, detto in compagnia?

Essere cattivi richiama l’essere figlio: chi mi ha generato? Perché sono stato generato?

Okay, certamente non so rispondere, però mi piace ricordare Francesco d’Assisi quando, di fronte a persone che avevano commesso gravi sbagli, ripeteva continuamente “Non è cattivo. E che non è stato amato”.

Accettare l’inutilità delle persone cattive, provando a dedicarci del tempo, potrebbe essere quasi interessante.

LIMITE: linea di demarcazione confine.

Una parola che sembra assumere un significato geografico, ma spesso dimenticata in questa accezione e molto più umanizzata. Chi non ha dei limiti?

“Sono basso, timido e appena lasciato dalla ragazza, riesci a capire quanti limiti ho. Con tutti questi limiti sono una persona spacciata” ripetevo in tempi non sospetti a tanti amici. In fondo, chi non si sente limitato e osa mostrare i propri limiti? Le proprie fragilità?

Anch’io pensavo questo (e a volte i pensieri ritornano in modo dirompente), fino a quando non mi è stato detto che il limite è quel no che ti regala la libertà. Una persona senza limiti altrimenti sarebbe un robot, un essere programmato e non un essere  provocato come in realtà è.

La bellezza del limite è la sua capacità di rendere umana ogni cosa. E’ quel confine tra l’uomo e il divino che tanto spaventa quanto ha il dono di chiamare alla vita piena, consapevole di questa distinzione.

Una persona che si sente dio di se stesso è destinata a fallire… e buon per lei!

Conoscersi limitati chiama ad apprezzare la realtà per quella che è e dona la bellezza dell’imprevisto: tutto fosse terribilmente perfetto sarebbe prevedibile in ogni suo momento, ascrivibile in leggi e per nulla creativo. L’uomo non risponde solo a qualcosa di insito in lui, ma è imprevisto. Il limite provoca, non decide al nostro posto. E’ il contorno del disegno che ognuno di noi è. E’ la bellezza di non riconoscersi vaghi o copia dell’altro, ma essere unico e irripetibile.

E se non mi credete o non vi piace l’idea di accettare i propri limiti che possono sembrare inutili e ci salvano dall’essere cattivi, provate a leggere “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia… Buona lettura!

SALUTE: condizione di benessere fisico e psichico dovuta a uno stato di perfetta funzionalità dell’organismo.

“Se hai la salute hai tutto!” Quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase? In effetti va di pari passo con: “L’importante è la salute!”.

L’altro giorno ho avuto il dono di incontrare una persona malata ma felice e queste due frasi mi sono parse un po’ piccole di fronte alla grandezza di un ragazzo malato di un male terminale con la gioia negli occhi.

Assolutamente non voglio dire che la salute non sia importante, anzi, è fondamentale e ringrazio ogni giorno di poter essere sano. Eppure credo che la bellezza di quei due detti, come mi è stato suggerito, sia nell’etimologia della parola salute.

In latino salus significa salvezza.

“Se hai la salvezza hai tutto!” e “L’importante è la salvezza!” non suonano meglio? A mio parere sì. Perché essere salvati significa vivere in pienezza, con un animo colmo di gioia anche nelle difficoltà.

“AAA fonte di salvezza cercasi!” è il primo pensiero che mi ha suscitato questa riflessione. D’altronde ci sono persone che non hanno nulla, sono povere e forse hanno problemi fisici, ma in fondo sono piene di vita (https://www.youtube.com/watch?v=jsZxH49R9ns) in tutte le loro avversità. Non tutti caratterialmente siamo così, ma tutti possiamo accettare il nostro limite di non esserlo e, anziché diventare cattivi nelle difficoltà, trovare salute (salvezza) nella loro inutile testimonianza.

Magari possono sembrare solo quattro chiacchiere da bar queste parole. Chissà che anche lì, però, non ci sia tanta bellezza da scoprire.