Il signor Palomar è un uomo tutto vista, uno scrutatore seriale che separa un tassello dal mosaico della vita e lo osserva con puntiglio. Il suo è un nomen omen: difatti, il protagonista eponimo del libro di Italo Calvino si chiama come un osservatorio della California. A differenza di quest’ultimo, però, egli non si limita soltanto a guardare, ma il suo occhio e la sua mente lavorano di concerto e ciò su cui si posa il suo sguardo diviene il centro da cui ramifica una sottile riflessione.
La sua disamina, che è organizzata in tre macro-aree tematiche (riflessioni di natura antropologica, esperienze visive, speculazione) e dalla quale poco viene escluso, prende avvio dall’inquadratura di un’onda. Poi, il focus si sposta ora sul seno di una donna, ora su qualche animale o su alcuni luoghi tipici del tran-tran quotidiano, fino ad arrivare alle cose intangibili e, inevitabilmente, in chiusa di libro, alla morte. Il modus operandi è all’incirca questo: ritagliare un segmento di vita; osservarlo a fondo e quindi descriverlo con perizia; interrogarsi; riflettere e cercare di rispondersi. Qualsiasi sia l’oggetto su cui ci si sofferma, la caffeina della meditazione deve sempre essere la curiosità.
Un uomo curioso non può che viaggiare, e, infatti, Palomar è punteggiato di osservazioni che traggono la loro linfa dalle città visitate dal protagonista. Nelle sezioni Palomar in città e I viaggi di Palomar, egli veste i panni di un’improvvisata quanto anomala guida turistica, prende inconsapevolmente il lettore per mano e lo porta con sé. La sua è un’angolazione inedita e, nel relazionare i luoghi che visita, sceglie sempre non una veduta d’insieme, una panoramica della città, ma un primo piano di un posto o di un elemento di volta in volta diverso. Cosa annota, ad esempio, di Parigi? Non i monumenti più conosciuti o gli angoli più scontati, ma quelle botteghe caratteristiche in cui ha fatto la spesa. Prima la charcuterie, dove «il suo sguardo trasforma ogni vivanda in un documento della storia della civiltà»: siamo, dunque, nell’orbita delle riflessioni di natura antropologica. Il cibo elaborato disturba i suoi sensi e gli impedisce sia di associare un sapore al piatto, sia di scegliere risolutamente cosa comprare. Palomar è convinto di questo: c’è un legame atavico tra l’alimento eletto e l’elettore; eppure, lui non sa cosa desiderare, in quale pietanza riconoscersi. Allora, disturbato, desidera andare via. Ma lo stesso sperdimento lo coglie anche in una fromagerie e, messo in difficoltà dall’ampia scelta di formaggi, non è in grado di decidere su due piedi. Perciò, il suo sguardo si fa enciclopedico ed egli inizia a catalogare i formaggi e a esaminarne i nomi: «Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile». Qui, l’elucubrazione è insieme antropologica e linguistica. Come nel caso della gastronomia, anche nella formaggeria il protagonista osserva le cose che vengono vendute come se fossero reperti museali: «Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma».
Poi c’è Barcellona con il suo singolare gorilla albino, un esemplare unico che dà adito a una meditazione sulla diversità e, soprattutto, sulla comunicazione. Il gorilla canuto, dietro alla vetrata dello zoo, ha con sé un unico oggetto: il copertone di uno pneumatico. Cosa può significare con questo? Palomar qui parte a briglia sciolta: «che cosa meglio d’un cerchio vuoto è in grado d’assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli? […] come il gorilla ha il suo pneumatico che gli serve da supporto tangibile per un farneticante discorso […] così io ho quest’immagine di uno scimmione bianco». E così, spiega l’incompletezza del linguaggio, l’indicibilità di alcune sfumature del pensiero. Di nuovo a Parigi – ma non si conosce il rapporto temporale tra le situazioni descritte nei diversi capitoli -, si diletta a osservare un’iguana del rettilario del Jardin des Plantes. Ma questi sono solo alcuni dei tanti animali che costellano le pagine del libro.
Ci sono, infine, i viaggi lunghi in luoghi lontani dalla Roma in cui abita, come quello in Messico o in un non meglio specificato paese dell’Oriente. Di quest’ultimo, Palomar non vuole offrirci uno scorcio del paesaggio o un preludio dell’atmosfera, piuttosto racconta nuovamente di una bottega, un bazar in cui acquista delle ciabatte spaiate. Chi mai avrà l’altra metà della coppia? Si chiede il protagonista. Quale catena di errori succederà a questa anomalia? Come si può intuire, le osservazioni, mai epidermiche, di Palomar muovono da una porzione ben segmentata della realtà, per poi estendersi fino ai più disparati campi, dalla metafisica, all’antropologia, alla semiotica, tra gli altri.
L’avventura di Palomar inizia sui giornali. L’ultimo romanzo – in cui, però, la forma romanzo viene sfaldata, a partire dall’assenza di una precisa successione temporale delle situazioni presentate – di Calvino nasce a puntate sulla terza pagina del «Corriere della sera», per poi migrare ad altre testate e, solo in un secondo momento, i pezzi vengono raccolti e confezionati nella forma libro. Il volume è alquanto autobiografico, l’autore, perciò, traspare nitidamente in filigrana dai pensieri di Palomar – che sono comunque alla terza persona singolare – e il risultato ottenuto da Calvino è un compendio dell’arte dell’osservare. Il protagonista talvolta si propone di immergersi nelle acque profonde della riflessione e di risalire a galla con gli occhi pieni di ciò che ha visto, mentre altri lacerti sono vere e proprie prove dell’estro dell’autore nell’ecfrasi.