Gente in Aspromonte è il libro più ricordato di uno scrittore oggi immeritatamente tra i più dimenticati: Corrado Alvaro. Ad essere più precisi, Gente in Aspromonte è una raccolta di novelle in cui l’autore ripercorre, con l’ausilio della memoria, l’infanzia trascorsa a San Luca, un piccolo paese in provincia di Reggio Calabria. Da questo scavo nel passato risulta non un’autobiografia, bensì una serie di racconti, crudi, oggettivi, sulla vita degli abitanti dell’Aspromonte e sul mondo rurale in sé, con le sue tradizioni, la sua arretratezza e in particolare i suoi rapporti di potere: Alvaro guarda senza diaframmi la dura realtà degli oppressi, con l’occhio del romanziere e giornalista vocato al realismo e sempre attento ai problemi che attanagliano il mondo.
«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque», comincia a raccontare l’autore nella novella eponima che apre la raccolta. E non è, infatti, bella la vita di Argirò, pastore aspromontano e padre di quattro figli, che deve fare i conti, in un braccio di ferro spietato, con la sventura. Quelli come lui vivono in montagna, in case di frasche e di fango e si stupiscono quando, scendendo in città, scorgono case di muri. Quelli come lui devono ogni giorno tribolare per affrontare le asperità della vita, la ferocia dei potenti e dare da mangiare alla propria famiglia. Ma i tormenti sembrano non aver fine: prima Argirò viene licenziato da Filippo Mezzatesta, uno degli impietosi proprietari terrieri dell’Aspromonte; poi il torrente manda all’aria il suo raccolto. La famiglia del pastore è costretta, così, a un nuovo giro di vite: la moglie deve trovare impiego come domestica e il figlio Antonello viene mandato in città a lavorare, mentre Argirò percorre ogni giorno venti chilometri a piedi per fare servizio di trasporto tra il paese e il mare.
In questa catena di disgrazie, la nascita del figlio Benedetto si carica, per la famiglia, di grandi aspettative. Benedetto, difatti, si scopre da subito molto sveglio e veloce nell’apprendimento e Argirò decide di stringere ancora i denti e farlo studiare in seminario, perché possa in futuro riscattare la famiglia. Il vero protagonista della novella, però, non è Argirò, e nemmeno Benedetto. È Antonello, che, al pari di Agostino nella Malora di Beppe Fenoglio, deve vivere un’esistenza sacrificata e insapore come il pane e l’acqua di cui solo si nutre per supportare la famiglia e permettere al fratello più brillante di prendere i voti. Deve perfino rinunciare all’amore: «non ti invischiare, non t’innamorare, altrimenti siamo perduti» lo avverto il padre. Sarà proprio Antonello a insorgere, mettendo in atto una degna vendetta per liberare i compaesani dalla piaga-Mezzatesta.
Questa è una delle tredici storie condite di miseria e sopraffazione che Alvaro racconta, non senza una certa dose di moralismo, per far sentire la voce degli oppressi e fornire la testimonianza diretta di una terra in cui, all’inizio del Novecento, la modernità non è ancora riuscita a fare capolino. Scrive della Calabria nonostante la lontananza fisica dalla regione del sud Italia; torna col pensiero a San Luca anche dopo essere emigrato a Milano e aver viaggiato in Francia e Germania. Ma questo non deve stupire: come insegna Pavese «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (C. Pavese, La luna e i falò).