Il tema della Pillola sportiva del mese di febbraio è Zaire. Metterlo in chiaro sin da subito è fondamentale. Già, perché parlare di Zaire nel 2017 significa riaprire con sole cinque lettere una ferita importante esattamente nel cuore di un continente, l’Africa, per secoli afflitto da mali da cui a fatica sta oggi cercando di uscire. Zaire è una storpiatura. Deriva dal nome con cui i colonizzatori portoghesi definivano il fiume Congo, “Zaire” appunto, utilizzando con superficialità il termine congolese “zneri”, letteralmente “il fiume che inghiotte tutti i fiumi”. Il suo nome, appartenente ad un tempo lontano, divenne presente dal 27 ottobre 1971, quando Mobutu Sese Seko, dittatore rimasto al potere fino al 1997 (guarda caso, anno in cui lo Zaire è tornato ad essere Congo), decise che era tempo di essere africani, dimenticando nomi stranieri e denominazioni ambigue e ritornando al passato. Da Repubblica Democratica del Congo, quindi, il cuore dell’Africa divenne Repubblica dello Zaire. E dove sta lo sport?
Il 22 giugno 1974, nel caldo estivo dell’allora Germania Ovest, proprio undici figli di quella storpiatura stavano giocando su un campo di calcio al cospetto dei campioni per eccellenza, quelli della nazionale del Brasile, nella maggiore competizione sportiva dopo le Olimpiadi, i Campionati del Mondo di calcio. E proprio lì, quel giorno, uno di quei ragazzi dalla pelle scura lanciò al mondo un monito che il mondo non ha forse realmente mai compreso.
Lo Zaire, per il pubblico europeo una allegra compagine dalle divise gialle, verdi e rosse, rappresentava in realtà uno dei principali investimenti fatti da Mobutu, con l’obiettivo preciso di portare l’Africa e le sue eccellenze nel mondo. Appena due anni prima, nel 1972, aveva vinto la Coppa della Nazioni Africane, unico successo nella storia del paese a livello calcistico, e da tempo ormai era la potenza sportiva del continente. Quella spedizione, quindi, doveva essere innanzitutto una copertina, come sarebbe stato qualche mese dopo il famoso incontro di boxe tra Foreman e Mohammed Ali a Kinshasa. I risultati, però, prima di quel 22 giugno, raccontarono ben altro: nella prima partita contro la Scozia arrivò una sconfitta per 2-0, poi aspramente peggiorata dal 9-0 patito contro la Jugoslavia. Quindi, appunto, il Brasile, in un match che, da un punto di vista sportivo, poteva raccontare ben poco. Finì 3-0 per i sudamericani, ma quell’incontro passò alla storia per tutt’altro: all’ 85’, sul 3-0 per il Brasile, Ilunga Mwepu, terzino destro dello Zaire, si lanciò all’impazzata su un pallone fermo, che attendeva di essere colpito dal brasiliano Rivelino, per una punizione in favore dei verdeoro, e lo calciò lontanissimo. Non avrebbe potuto, il regolamento non lo prevedeva e non lo prevede tutt’ora. Mwepu scatenò da quel momento l’ilarità di tutti gli amanti dello sport e quel gesto divenne uno dei più famosi della storia ottuagenaria del Mondiale di Calcio. Ancora oggi, sono molti i video che su Youtube raccontano quell’atto, ritenuto tra i più come “simpatico” e poco altro.
Così è, indubbiamente, ma in pochi si sono chiesti il perché di quel gesto. Zaire simbolo di un mondo non civilizzato, che non conosce le regole? Mwepu impazzito? La realtà è tragicamente un’altra. Quegli undici uomini, copertina di una nazione che rinasceva dopo secoli di dominio straniero, l’avevano tradita perdendo, e nei giorni precedenti il quartier generale del loro ritiro era stato invaso dalle forze di polizia della madrepatria, che li avevano minacciati: “O perderete con il Brasile con non più di tre gol di scarto, o per voi sarà dura tornare in Zaire”. Alla base alcune promesse non mantenute: Mobutu aveva assicurato ai giocatori moltissimo denaro in caso di partecipazione a quella rassegna iridata, ma i soldi non si erano mai visti. Che non fossero mai stati inviati o che se li fossero intascati i membri dell’entourage della nazionale, poco importa. Quel che è certo è che i giocatori dello Zaire dalla partita con la Jugoslavia avevano rifiutato di giocare un calcio degno del loro nome, quasi per ripicca.
Il tutto fino al 22 giugno. Lì, non si poteva più sgarrare: perdere significava morire, perché una dittatura non ama giocare. Eccoci giunti alla conclusione del nostro racconto. Solo il video sopra può fare il resto. Racconta di una barriera che sembra una fila di condannati a morte; di alcuni giocatori brasiliani pronti a sparare, a mo’ di un plotone d’esecuzione; di un uomo che vide in quel gol in più o in meno la vita o la morte. Mwepu, figlio della storpiatura europea, storpiò il gioco degli europei, contravvenendo alle regole. Ma il suo era un monito, non uno scherzo. Lo Zaire non stava più giocando. A trentatré anni di distanza da quel momento e a venti dalla data in cui, con la morte di Mobutu, lo Zaire è tornato ad essere Congo, un sorriso per quelle immagini va accompagnato con le giuste riflessioni.
Nota: tante sono le interpretazioni di quel gesto, Mwepu, morto nel 2015, non ha mai raccontato esplicitamente il perché. Questa comunque, alla luce dei fatti accaduti nei giorni precedenti, resta la più plausibile.