Foto: La Costituzione cancellata di Emilio Isgrò in “Una indivisibile minorata”, 2010, Tecnica mista su libro
Nel secondo articolo ho parlato della fotografia e del ruolo che questa ebbe nel modificare la pratica artistica. Ho terminato poi affermando quanto sia ormai facile raccontarsi per immagini piuttosto che verbalmente: se devo raccontarvi le vacanze che ho appena trascorso vi mostrerò le fotografie che ho realizzato piuttosto che limitarmi a descriverne a parole gli eventi, i luoghi, i colori, le particolarità che l’hanno caratterizzata.
Si dice “un’immagine vale più di mille parole” ma che cos’è effettivamente?
Un’immagine è una rappresentazione in forma visiva della figura e dell’aspetto suscettibile di riproduzione e confronto e percepibile unicamente attraverso il senso visivo; e la cui potenza espressiva, con tutto il suo bagaglio di citazioni richiamate, somiglianze, assonanze e possibili collegamenti, è ormai ben chiara, in particolare agli artisti, a chiunque abbia come proprio obiettivo la veicolazione di un messaggio. L’arte d’altronde è una forma di comunicazione: essa è la concretizzazione fisica di un’idea che sceglie la via, a parere di chi la genera, più funzionale e migliore. L’uomo ha iniziato a raccontarsi attraverso immagini fin da quando trovava riparo nelle caverne, così come ha continuato sulle mura degli edifici a lui più cari, dalle piramidi alle chiese, fino alle città intere.
Ma cosa comporta l’uso iperattivo dell’immagine? Proviamo a masticare qualche numero, assolutamente non reale, ma quanto meno plausibile: mettiamo a confronto un uomo vissuto durante il medioevo e uno qualsiasi di noi.
Nel caso dell’uomo medievale, e solamente nel caso questo appartenesse a determinate classi sociali quali nobili ma sopratutto ecclesiastici, si può dire che questo ipotetico uomo X si potesse ritenere assai fortunato se nell’arco della sua intera vita, a cui diamo una durata ipotetica di quarant’anni, avesse visto cento immagini…
Paragonate alle 216.000 immagini di cui è composto un qualsiasi film di centocinquanta minuti (ventiquattro frame al secondo per i sessanta secondi di cui è composto ognuno dei centocinquanta minuti) quelle cento immagini sono un’inezia. Ora già mettere a confronto il numero delle immagini nei due casi ci da una vaga idea della differenza: cento nel primo caso, 216.000 nel secondo. Ma quello che è davvero sconvolgente, a mio avviso, è mettere a paragone i due dati temporali: quarant’anni contro le due ore e mezza del film.
Se dico che siamo bombardati da immagini non affermo nulla di nuovo, quello che ho scritto finora serviva più che altro per introdurre alcuni artisti che della “ipersaturazione” di significato hanno fatto un elemento centrale del proprio lavoro, interpretandola in maniera anche opposta in taluni casi.
Cancellare o non occupare uno spazio per lasciarlo nella sua dimensione di potenzialità o restituirgli questa dimensione, non dire nulla o cancellare il superfluo per far si che la propria opera non si perda nel marasma e nel rumore dei nostri tempi.
Emilio Isgrò, artista concettuale e cancellatore per antonomasia, in questi mesi in mostra al Palazzo Reale di Milano che sulla genesi della propria opera dice: “Germinò davanti a un foglio pieno di cancellature. Era un articolo tormentato di Giovanni Comisso per il Gazzettino. Pensai che le nostre vite sono piene di ripensamenti, di rimozioni, di ricordi e di gesti cancellati. E vidi in quella traccia come la testimonianza più profonda dell’essenza umana”[1].
Una delle sue opere più celebri, Il Cristo Cancellatore del 1968, un’opera d’arte in forma di libro, già con il titolo ci da un assaggio della portata eversiva del lavoro dell’artista siciliano che si figura come: “Un Cristo per niente povero che invece di assumersi i peccati del mondo, li cancellava. Pierre Restany commentò con arguzia che avevo assunto l’identità di Gesù, come un pazzo che si crede Napoleone. Avevo già lavorato sulle cancellature: su libri e giornali. C’era il manifesto della Wolkswagen del 1964. E subito dopo il Cristo; nel 1970 realizzai la cancellatura della Treccani”[2]. Infatti dal 1970 Isgrò cominciò a cancellare le voci dell’enciclopedia Treccani ovvero cancellava delle convenzioni ormai date per assodate a tal punto da diventare definizioni uguali per tutti; si tratta di un mettere in discussione ciò che ormai è dato per scontato fino alla banalità del quotidiano. I giochi sono riaperti sembra dirci Isgrò con la sua arte.
Robert Ryman, all’opposto, non necessità di cancellare alcunchè dalle sue tele in quanto su di esse non c’è che il nulla, il vuoto.
Ryman, infatti, dipinge le sue tele solo ed unicamente di bianco ripetendo continuamente quel rito dell’artista, che come un dio creatore, si confronta con il vuoto della tela da riempire.
Esporre una tela bianca conferisce il titolo di artista a chiunque che davanti ad essa sia in grado di immaginare una qualsiasi cosa, di creare dal nulla e lo nega a chi, a priori, nega il valore del dono di Ryman. In un contesto come quello descritto prima l’opera di Ryman rimane un salvagente nel mare nero del superfluo, dei milioni di immagini pubblicitarie e non, con cui dobbiamo forzatamente relazionarci ovunque e ogni giorno. Sono una boccata d’aria pulita in una città invasa di smog.
Io sinceramente credo che ,dopo la sensazione di stasi di Edward Hopper nelle sue tele, la rappresentazione del vuoto, in tutte le sue accezioni, non potesse che passare attraverso l’uso del bianco totale. Il colore dell’inizio.
L’uso ipertrofico dell’immagine come veicolo di un messaggio, la facilità e la velocità con cui ora si producono immagini è uno dei fattori per cui il valore della qualità tecnica e andata via via scemando in favore di un maggiore interesse verso l’originalità dell’idea ed il valore assoluto ed unico che essa ha: Ryman da forma all’idea di vuoto in relazione al processo creativo; Isgrò all’opposto fa della saturazione la base, il supporto per la sua opera che nella base è già contenuta ma va fatta riemergere eliminando il superfluo.
Due idee simili che si concretizzano in modi tra loro opposti ma che si configurano come una panacea per il gran mal di testa che la complessità dei giorni nostri spesso ci crea.
[1] Emilio Isgrò “Ho cancellato tutto, anche me stesso, per togliere il superfluo dall’anima” di Antonio Gnoli, su La Repubblica del 26 Giugno 2016.
[2] Ibidem
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