Chaimaa Fatihi è nata nel 1993 in Marocco dove è vissuta fino al compimento dei sei anni.
Dopo essersi trasferita ha frequentato la scuola primaria e secondaria nella cittadina di Castiglione delle Stiviere (MN) ed ora studia Giurisprudenza a Modena.
Il suo interesse negli abiti del sociale la portano a diventare delegata nazionale dell’Associazione Giovani Musulmani d’Italia al Forum Nazionale Giovani. Lei è una cittadina italiana di seconda generazione ed fiera di essere parte della nostra società. Purtroppo nel corso della sua vita ha dovuto fare i conti con gli stupidi pregiudizi contro la sua religione. Questo confronto che le hai vissuto come arricchimento personale, e non come scontro tra culture, l’ha portata a scrive una lettera a la Repubblica sulla scorta della strade del Bataclan di Parigi. Una lettera in cui lei condanna il fondamentalismo, in cui si può sentire tutto il disagio e la rabbia di una giovane ragazza italiana musulmana che vede l’associarsi della sua religione al fenomeno del terrorismo.
L’incontro è stato incentrato sulle sue esperienze, sulla sua interazione con la nostra cultura e sul suo essere una donna in un’altra religione. Il filo conduttore di tutto il discorso è stata la voglia di presentare un Islam che nella sua radice “aslama” si ricollega alla parola “salām” che significa semplicemente Pace.
Come hai vissuto in prima persona, da musulmana, il confronto con i non-musulmani?
Fino ad appunto le scuole medie non ho mai avuto questa percezione di confronto con qualcosa di differente. Dalle superiori in poi probabilmente ho iniziato a percepirlo maggiormente. Forse perché avevo maggiore consapevolezza di quella che era una mia identità “plurale”, ma l’ho percepito sempre come un arricchimento. Perché in realtà trovavo tante cose che univano piuttosto di quelle che dividevano. Questo per me è stato assolutamente molto importante, quindi in realtà l’ho vissuto sempre in maniera molto positiva.
Però quali sono delle misure concrete da attuare nei processi di integrazione? Mi riferisco a quelli che sono appena arrivati, per esempio i migranti o appunto quelli che hanno maggiore difficoltà ad abbracciare una nuova cultura.
A me piace sempre parlare più di interazione più che di integrazione, perché togliendo quella “g” in realtà, ovviamente con l’integrazione c’è uno che fa uno sforzo per integrarsi nella società, però nell’interazione c’è uno sforzo da entrambe le parti. Quindi la parte che arriva e che è nuova cerca di sforzarsi per esempio nell’apprendere la lingua italiana e conoscere la cultura del paese. Dall’altra però c’è lo sforzo del paese accogliente in cui la società cerca di capire la cultura dell’altro, capire il paese dal quale arriva questa nuova persona. Come processo di interazione c’è questo sforzo reciproco in cui serve lavorare molto sulla lingua che è l’unico modo per esprimersi, per esprimere i propri pensieri. In secondo luogo è molto importante formare una persona a quello che è la cittadinanza attiva e ai valori civili che viviamo nel quotidiano, perché è molto importante. Spesso le persone provenienti da altri paesi non hanno idea anche di quelle differenze proprio di cittadinanza e quindi dei valori costituzionali che magari loro non hanno e che nel nostro paese possono avere. Faccio per dire, il diritto al pensiero e alla libertà di parola non è così scontato per tutti i paesi, mentre noi per fortuna ce l’abbiamo ed è importante anche riprenderlo.
Ma questa interazione deve essere fatta nelle scuole o fuori dalle scuole?
Io penso che serva in entrambi i contesti, più precisamente nella scuole, perché in esse c’è sempre, talvolta, un po’ più di difficoltà, per esempio nel non fare tutto il programma o non riuscire a fare altre cose. Mentre in realtà forse gli insegnanti dovrebbero anche di oltrepassare solo la mera didattica delle regole grammaticali, della matematica, delle equazioni e cercare di fare più progetti per coinvolgere tutti gli studenti anche ad aprirsi e dialogare insieme, cosa che non è scontata purtroppo oggi. Bisogna anche valorizzare questo aspetto della scuola che non è solo di studenti ma di nuovi cittadini.
Ed ora un’ultima domanda. Quali sono i metodi e le forme per divulgare la cultura islamica con cognizione di causa e soprattutto in modo pacifico?
Sicuramente è il leggere tanto tanto tanto e cercare di rivolgersi il più possibile ai diretti interessati, perché spesso ne parlano i non mussulmani e i non arabi o comunque non i diretti interessati e terze persone, quando in realtà facendosele spiegare da chi lo vive in prima persona nel quotidiano si potrebbe avere una comunicazione più efficace ed efficiente.