Fissavo la sveglia da un po’. Solo che al buio non si vede niente. Provavo a fantasticare su che ora fosse. Il problema è che in quei momenti il tempo perde tutto il suo valore per cui non capisco mai se stiano passando minuti o ore. La sveglia mi spaventa, suonando e accendendosi. Sono le 7,30 e devo scendere dal letto. È tutta la notte che penso e mi diverte la sensazione che mi rimane di essere nel bezzo di un romanzo scritto a quattro mani da me e da Joyce. Vi posso assicurare che non si capisce niente: è tutto così collegato che è impossibile non perdersi. Appena in piedi, tiro su la tapparella di camera mia e apro la porta. Un freddo gelido mi investe, portandosi dietro un brivido rivitalizzante. Vado in bagno sfruttando solo la luce del poco sole che c’è. Torno in camera per cambiarmi e prepararmi a questa giornata. Poi torno in bagno e, mentre mi rado, penso ancora un po’. Il corridoio tra camera e bagno è il sentiero perfetto per pensare camminando e perdendo meno tempo possibile.
Faccio colazione con le fette biscottate, una marmellata pessima che non vedo l’ora di finire e poi il caffè. Quello, invece, è buono e ne compro sempre un pacchetto nuovo ben prima che finisca l’altro perché non vorrei mai farmi trovare impreparato. Metto la camicia più blu che ho e il giubbotto con più tasche che ho. Ci infilo il taccuino e la penna, poi controllo che la penna avesse il tappo. Credo di avere l’interno della tasca piena di righe di penna. Prendo anche il registratore perché non si sa mai. Devo andare ad intervistare il destino, appuntamento alle 8,30 a casa sua, che dista un quarto d’ora con i mezzi dalla mia. Poi lo sanno tutti che con i mezzi non è mai veramente un quarto d’ora, quindi meglio partire prima. Voglio fare una buona impressione. È singolare come io, che ho sempre pensato che chi giudica dalle apparenze non meriti grande considerazione, abbia questa pretesa. La verità è che c’è chi fa retorica, chi esagera, ma tutti quanti, nessuno escluso, giudica su quello che vede, sente, percepisce al primo impatto. Per questo, credo, tutti i passanti che incontri guardano per terra, ascoltano la musica o fissano un punto all’orizzonte: non vogliono giudicare troppe apparenze, altrimenti sai che confusione! Prendo il bus. Convalido il biglietto. Forse sono l’unico. Ci sono stati anni in cui non lo facevo spesso. Non ne vado fiero. Guardo fuori dal finestrino e vedo il caos perfetto di tutti quelli che vanno per la loro giusta strada. Al mattino sanno tutti dove andare. Non mi sembra di notare nessuno che perde tempo come faccio io nel corridoio di casa. Avendo pensato a casa tocco la tasca dei jeans per controllare di aver preso le chiavi. Le ho prese. Una signora mi chiede se scendo per paura di perdersi la sua fermata. La faccio passare. La mia è quella dopo ancora.
Dopo la discesa della signora, prenoto la fermata. Devo ancora decidere quale tra due domande che ho in testa farò per prima. È importante cominciare bene un’intervista. Sono convinto che un’intervista perfetta nasca da una singola domanda. Poi tutto il resto deve venire da sé. Se anche solo qualche virgola è forzata, puoi avere per le mani un titolo, uno scoop sensazionale, una confessione esclusiva, ma ti sei allontanato dalla verità. E questo non è bene. Anche se tutti ti diranno: “Ottimo lavoro!”. L’autobus si ferma e io scendo. Mi ero appena abituato al freddo del bus. Quello fuori è un po’ diverso. Non ho preso i guanti per dare al destino una fredda stretta di mano. “Va bene la cordialità, ma voglio stare sulla realtà, sul concreto. Fuori fa freddo, per intenderci”. È questo quello che voglio fargli capire. Se non lo capirà mi sarò ghiacciato le mani inutilmente. Magari mi offrirà qualcosa di caldo da bere. Anche questo ha un significato in un’intervista. Seguendo le indicazioni che ho, arrivo davanti a un palazzo elegante dove probabilmente vivono studenti in affitto, pensionati e forse qualche famiglia. Se non ho sbagliato ci vive anche il destino. Suono il campanello. Soffio subito nelle mani per scaldarle un po’. Non mi piacerebbe, tra tutte le domande che posso scegliere, esordire con “Posso mettere le mani sul termosifone?”. Questa storia dei guanti è una grandissima stupidaggine. La prossima volta, se dovesse esserci li indosso e poi li tolgo un attimo prima di entrare. Infilo le mani in tasca e mi guardo intorno. Poi do un’occhiata al cellulare: il tipico gesto di chi aspetta un po’ nervosamente. Provo di nuovo a suonare il campanello. Sono sicuro di non avere sbagliato. Il destino mi sta aspettando, eppure non mi apre. Guardo verso l’alto chiedendomi quale potesse essere la sua finestra. C’è un filo della luce che ospita una fila di placidi piccioni. Sembra si stiano scambiando due parole, gli uni accanto agli altri. In quel momento, però, uno di loro decide di lasciar cadere dall’alto un suo ricordo biancastro, dritto sul mio giubbotto. Istintivamente dico “Noooo!” con faccia schifata. Recupero un fazzoletto e comincio a pulire. “Sarà il destino”, penso. La porta si apre.