Senza il contributo offerto dagli autori liguri, la letteratura italiana risulterebbe mutila e significativamente più povera. La Liguria, infatti, ha visto un cospicuo proliferare di autori, specie nel XX secolo: è la regione natìa del mostro sacro del Novecento italiano Eugenio Montale, del poeta crepuscolare Sbarbaro, di Sanguineti e, volgendo lo sguardo alla stretta contemporaneità, di Umberto Fiori.
Uno scrittore il cui nome è indissolubilmente legato al capoluogo ligure, Genova, è Giorgio Caproni. L’autore, nato a Livorno ma genovese per adozione, ha esordito nel primo Novecento e la sua produzione è perdurata fino agli anni Ottanta. La critica lo considera un antinovecentista, ovvero un poeta che non è possibile inquadrare in quelle che erano le due mode poetiche degli anni a mezzo tra le due guerre mondiali, la linea montaliana e l’Ermetismo, ma che ha percorso una strada tutta sua. Proprio per questa natura di outsider la sua storia poetica è rimasta a lungo, utilizzando un’espressione di Pier Vincenzo Mengaldo, «subacquea». Ma la produzione di Caproni è tutt’altro che di second’ordine, e Mondadori, che l’ha ben compreso, l’ha pubblicata nella collana I Meridiani, in cui figurano i più grandi nomi della letteratura italiana ed estera.
Per addentrarsi nelle liriche caproniane è necessario ricorrere a una dichiarazione dell’autore che è stata eletta a caposaldo della sua poetica: «Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri». L’adesione al quotidiano è, dunque, irrinunciabile
per scrivere versi, secondo Caproni. Non sono, però, solo bicchieri e stringhe ad essere ospitati nelle sue poesie: anche la funicolare, gli spaghetti, le biciclette acquistano dignità poetica ed entrano, come parte della quotidianità, di diritto nella sua opera. Perfino le sue due muse, la madre Annina e la moglie Rina, sono “in ciabatte”, colte cioè nel loro tran tran quotidiano e quindi inevitabilmente lontane dalle donne della tradizione, dalle Beatrici e dalle Laure. Oltre ad oggetti e persone della routine del poeta, prendono posto nelle sue composizioni anche luoghi come latterie, bar, e, immancabilmente, Genova.
Gli anni genovesi (1922-1933) sono decisivi per la formazione del poeta, nonché dell’uomo, e l’autore stesso confida: «La città più mia è, forse, Genova. Là sono uscito dall’infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato […] ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi». Là, inoltre, il giovane Caproni intraprende i suoi studi di violinista, poi interrotti nel momento in cui realizza di essere vocato alla poesia. Le liriche che da qui in poi compone sono spesso
un tributo alla città che l’ha introdotto al mestiere di scrivere. Litania (Il passaggio di Enea), in particolare, consente di scandagliare il sentire che lo legava alla sua città adottiva. I versi, fedeli alla poetica del quotidiano, abbracciano la realtà nella sua interezza e mostrano un’ampia gamma di oggetti, toponimi, autori liguri e sentimenti. Ne risulta un rapporto controverso con la città: Genova è «delizia» ma anche «croce», è «fidanzata» e subito dopo «bagascia». È «mercantile, / industriale, civile», ma anche marina e solare. Il ritmo piatto, da litania, contrasta con lo shock che i versi provocano nel lettore, sia per le parole impoetiche che contengono, sia per il continuo contraddirsi dell’autore. In questa Genova camaleontica tutto è possibile, anche arrivare tranquillamente in paradiso. Ne L’Ascensore (Il terzo libro e altre cose), infatti, il poeta immagina di poter prendere l’ascensore di Castelletto per salire in cielo ed incontrare Annina, la madre morta. L’incontro è desublimato, già a partire dal mezzo che permette l’ascesa, un normalissimo ascensore pubblico che connette una piazza di Genova al belvedere del quartiere Castelletto (ora, all’ingresso, per ricordare la poesia, è stata affissa una targa che riporta alcuni versi de L’Ascensore).
Infine, una tappa obbligatoria per chi volesse fare un tour nei luoghi di Caproni è Piazza Bandiera, con la statua di Enea che sorregge Anchise e Ascanio. Il titolo della raccolta Il passaggio di Enea è ispirato proprio alla storia del monumento, che, prima di venire collocato in Piazza Bandiera, ha fatto il giro delle piazze genovesi. La statua di Enea, rimasta integra nonostante gli spostamenti e le guerre, diventa per l’autore il simbolo dell’uomo che, nonostante tutto, resiste al tempo. Dell’uomo che, nel secondo dopoguerra, davanti alle macerie è «veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento».