Sabato 12 settembre si correva la penultima tappa del Giro di Spagna. Nei grandi giri, quelli infiniti, che si trascinano per settimane e si vincono con le gambe, con la testa e con i nervi, la penultima tappa è quella che conta. L’ultima, se il distacco è abbastanza evidente, la chiamano passerella, perché si entra a Milano o a Parigi, in questo caso a Madrid, quasi tutti insieme, attorniati dalla folla, che applaude l’impegno e la grinta di ciclisti che danno il massimo di sé per kilometri e kilometri, e spesso neanche questo basta.
Sabato 12 settembre, Fabio Aru, sardo di Villacidro, stava a 6 miseri secondi dal leader della corsa, l’olandese Dumoulin e sapeva che ce l’avrebbe potuta fare: lo avrebbe potuto scalzare, per poter nuovamente indossare la maglia rossa, quella che conta avere addosso l’ultimo giorno, sotto il sole di Madrid.
Sabato 12 settembre, davanti alla televisione ho di nuovo imparato tante piccole cose che il ciclismo ti può insegnare, rimanendo pur sempre umile e timido, com’è nel suo carattere.
Ancora una Vuelta, ho imparato che 6 secondi sono tanti, quando li devi recuperare e che sono dettagli, che fanno una grande differenza. Al tuo avversario basta rimanere lì con te, senza troppe preoccupazioni, e tu hai perso. Per soli 6 secondi. Ma hai perso.
Ancora una Vuelta, ho imparato che ci devi credere sempre. Anche se il giorno prima eri distanziato di soli 3 secondi, credevi di poterli recuperare, eri sicuro di farlo, e poi, invece, te ne becchi altri tre. E dopo la tappa sei nervoso, dai l’idea di esserti bruciato l’ultima occasione. In realtà, l’occasione non è mai l’ultima. Se ci credi, ce n’è sempre almeno ancora una.
Ancora una Vuelta, ho visto il gusto amaro e affascinante del mondo della bicicletta, per una volta non sporcato da storie di doping, e fatto di allenamenti, sacrifici, sudore, storie che ti pesano sulla schiena, quando affronti quella salita che sembra non finire più e stingi i denti, perché il segreto non è pedalare più forte degli altri, ma non smettere mai di farlo. Sono la resistenza e la tenacia che entusiasmano il pubblico.
Ancora una Vuelta, ho riscoperto il valore della squadra e quanto sono preziosi quelli che nel ciclismo chiamano “gregari” e che nella vita sono quelli che faticano in silenzio, che sono disposti a fare sacrifici e conoscono il loro ruolo e le loro potenzialità, così bene che fanno il massimo in ciò che sono bravi, senza invidie. Questa Vuelta l’ha vinta il capitano Fabio Aru e nella storia entrerà il suo nome, ma lui per primo sa che è stata la vittoria della squadra, l’Astana, e di gente come Tiralongo, che è stato coinvolto in una caduta e ha lasciato la corsa con 36 punti di sutura in faccia, di Cataldo e Vanotti, ma soprattutto della generosità di Rosa, Sanchez Gil, Landa e Zeits, che sono stati i veri artefici dell’impresa del 12 settembre, perché hanno pedalato insieme al loro capitano e, se possibile, anche per lui, aiutandolo a mettersi le ali ai piedi e a staccare il leader Dumoulin di oltre 3 minuti. Dumoulin era solo. Aru aveva sempre almeno 3 compagni al fianco, o meglio davanti per tagliare l’aria e guidare il gruppo. Un grande gruppo fa molta più differenza di 6 secondi.
Ancora una Vuelta, ho applaudito l’incredibile voglia e costanza di uno come Ruben Plaza, un ciclista trentacinquenne spagnolo, senza l’ambizione di poter vincere la corsa, ma con il sogno di vincere la penultima tappa, che parte da solo, a 114 km dal traguardo, portandosi dietro solo l’incoscienza di chi vuole tentare una fatica immane, davanti al pubblico di casa sua, con il rischio concreto di farsi riprendere dagli altri e magari farsi superare a una manciata di kilometri dall’arrivo, dopo aver combattuto da solo contro il vento per un paio d’ore. Invece, lui scappa e nessuno ha più la forza di riprenderlo, se ne va da solo in quella che, non a caso, chiamano fuga e ti viene da applaudire. Perché ci vuole coraggio e devi continuare a ripeterti “Non mollare!” sotto il casco. La vittoria di tappa è il giusto e onorevole tributo per una scelta, che scoprirai essere giusta solo alla fine.
Ancora una Vuelta, tanti complimenti a Fabio Aru e al mondo umile e timido del ciclismo, che anche quando è popolato da farabutti e corrotti, di affamati di soldi e di vittorie, disposti a tutto pur di ottenerne, è capace di spazzarli via e di ricominciare. E il ciclismo ricomincia con lunghi allenamenti in montagna e poi tappe faticose, nel fango o sotto la neve, e un lavoro esorbitante, buttato via da una caduta, che magari non è neanche colpa tua e ti spacca le coste, e le vittorie leggendarie a braccia alzata tra due ali di folla, in volata o in fuga e le sconfitte, quando in barba alle leggi della logica senti che c’è tutta salita e mai discesa.
Giorni come il 12 settembre, ti fanno venire la strana voglia di inforcare la bicicletta per fare il classico giro della domenica e mentre ci sei, ti fanno pensare a prendere la vita per il manubrio, a fidarti di quelli che ti aiutano ogni volta che possono, a aiutare ogni volta che puoi chi ne ha bisogno, senza chiedere o aspettare una ricompensa, a non farti scoraggiare da nulla, a stringere i denti, quando serve, perché solo così si arriva al traguardo con le mani alzate, in mezzo alla gente festante, con la maglia rossa addosso. Come Fabio Aru.
E mi viene da pensare: dai, ti prego, ancora una Vuelta!
Marco Brero